Al popolo palestinese

 

L’ultimo triennio passerà alla storia come la trilogia napoletana del fútbol. Ritrovamento, sconforto e recupero. Per un’altalena su cui si sono dondolate tutte le generazioni. In voto a un carosello di pentimenti e ripensamenti.

Il 2023 restituì quello che sembrava definitivamente perduto. Fino al terzo scudetto molti napoletani avevano perso le speranze. Le delusioni di quelli sfiorati e i limiti apparenti dei mancati interventi societari avevano imposto un’idea della dimensione sull’orlo della gloria, ma non del suo raggiungimento. La scorsa annata deglutì con affanno l’amarezza di un prosieguo contrario. Un tonfo rumoroso e inspiegabile ammucchiò i cocci di una delusione d’altri tempi, tanto quanto la gioia vissuta pochi mesi prima. 

Il 2025, a ridosso dell’anno che riconoscerà un secolo di calcio alla Napoli millenaria, ha riportato tutti indietro nel tempo. Non quello dolcissimo e poetico del primo scudetto, ma di quello che fu l’ultimo atto prodigioso della storia di Maradona all’ombra del Vesuvio. Molti hanno paragonato questo campionato a quello del 1990, allora conclusosi con una rimonta nelle ultime giornate a danno del Milan di Sacchi. Questo è saputo andare oltre. Non per valori, ma per entità. 

Napoli ha sognato per un secolo l’ebbrezza del trionfo sulla linea del traguardo. I precedenti erano tutti sconfortanti. Più di un campionato perso nelle battute finali, più di una gloria scivolata via per poco. Napoli sognava il punto a punto per potersi finalmente trascinare dietro avversari mai battuti nella logica caotica. Per la prima volta il Ciuccio ha imposto all’avversario la psicosi della delusione. E non per sadismo, ma per guardare in volto i contorni di un transfert che per tanto tempo aveva rappresentato ragione di umiliazione. 

La città si è data appuntamento in alcuni dei suoi punti significativi, da Piazza del Plebiscito a Piazza Mercato, fino a Scampia, in luogo dell’antro poetico e spietato, regnante e colonizzato, dai tempi dei re alle decapitazioni, e quell’appuntamento è culminato fino alla colonna umana che ha riempito il lungomare in nome di uno sfollamento inverso. In tempo di pace con un intorno di guerra, sbandierato tanto a favore dei popoli oppressi quanto dedicato a chi non ha fatto in tempo. Il coro in ebbrezza ha brillato di estasi collettiva e di voti alla sensibilità. 

La festa si è ricomposta dopo la notte stanca tra venerdì e sabato. Mai felicità è più duratura di quella che si tiene stretta alle forme di resistenza. L’impresa di una squadra ricucita un po’ col vecchio e un po’ col nuovo è stata lo specchio di quella capacità che dopo tanti anni ha nuovamente rimesso alla prova un sentimento coraggioso, che ha sempre messo paura ai protocolli grigi e impettiti di un luogo che spesso si rivela maldestra cornice di qualcosa con cui ha ben poco a che fare. Perché il merito del Napoli di Conte è stato quello di aver battuto la commiserazione di chi pensava che il 2023 fosse stato una casualità da iscrivere al registro degli eventi buoni per contentare. 

No. Perché una volta tanto, come trentacinque anni fa, forse ancora di più, quel sentimento liberato dopo tanto tempo ha saputo mostrarsi più indomito di quanto si potesse immaginare. E quel punto di vantaggio, così prezioso e rocambolesco, che al novantesimo della penultima giornata stava per decretare la più cocente delle sconfitte, è diventato la discesa alla vittoria più bella. In grado di preservare la sua storia, sin dai tempi della fondazione, innervata dall’imperturbabile identificazione nel mito di Maradona, e rivolta a dare merito a tutte quelle persone che ogni volta riescono a dare vita alla disciplina della felicità.