La crisi interna del Napoli ha una funzione rivelatrice. Semmai ce ne fosse ancora bisogno. E non è l’unica. Altrove ne accadono di cose. La differenza di fondo è tra chi vi resiste e nasconde di più.
Se Antonio Conte ha le sue responsabilità tecniche, di gestione, di relazione, la sua stessa colpa è il motto di spirito di un ambiente, di uno stato di cose a cui bisogna rassegnarsi, conviverci, senza confidare. Perché se le idee tattiche dell’allenatore del Napoli, per scelta o per limiti (forse per entrambi), si scontrano con ambizioni superiori, è anche sospettabile che il malfunzionamento dipenda pure da un’impossibilità di predisposizione collettiva. C’è chi aderisce incondizionatamente a qualcosa e chi invece non è in grado di farlo, o semplicemente non vuole.
Conte è uno che fa riparo nella sua tempra. Il suo carattere è anche strategia. Viene fuori dannosamente quando quel malfunzionamento non è più controllabile. È uno che fa valere il peso della novità, che spinge sulla leva del riscatto. Consolidare forse è un’altra cosa. Che dipende da molti altri aspetti. E nelle dimensioni tra le dimensioni, di quando non si è piccoli ma nemmeno grandissimi, tutto diventa ancora più complicato. Passano i giocatori che ambiscono, quelli che sono stati grandi, quelli che non sanno ancora cosa diventeranno. Tutto in mezzo al caos delle mezze voci, delle parole dietro le quinte e degli animi distratti dalle ebbrezze di un sistema in cui ogni cosa è precaria. Figuriamoci l’attaccamento.
I problemi del Napoli non nascono da aspetti di natura tecnica. Probabilmente c’è qualcosa che non si vede e che non si può dire, che va oltre pure gli sfoghi maldestri dell’allenatore e dei calciatori. Il primo rivolto a mettersi al sicuro davanti alla società (Conte sa bene di avere una grande responsabilità davanti agli investimenti del Napoli chiaramente a supporto delle sue scelte) e i secondi a sbuffare quell’insofferenza che è la sedimentazione di qualcosa che andrebbe scongiurato anziché arginato.
È una questione di debolezze fatte passare per forze. Che diventano quasi sempre materia urlata, disfatta sotto i colpi di quella narrativa spicciola che non aspetta altro. Forse in questo momento la peggiore figura del gruppo che fino a pochi mesi fa aveva dato lezioni di compattezza e di serietà, è quella di essersi lasciato andare a un infantilismo al dettaglio che sta tenendo in ostaggio un desiderio che non è più liberatorio, ma vittima di se stesso. È il rischio numero due. Restare a lungo dentro qualcosa fino a sentirsene in possesso.
Con la vetta della classifica a portata di mano, la qualificazione ai sedicesimi di Champions ancora in gioco e con Supercoppa e Coppa Italia ancora da iniziare, gli stimoli dovrebbero abbondare. Non per chi anticipa l’epilogo.