Quando a 16 anni, nei sobborghi del quartiere afro-americano di Liberty City, lo si vedeva marchiare con le nocche attoniti avversari sul ring, a qualcuno venne in mente di chiamarlo 'el Marielito', l'amareggiato.

 

La faccia da malinconico, cinico e ruvido figlio di puttana, d'altra parte, Mickey Rourke non se l'è certo costruita col tempo: non è un caso che quel nomignolo, quindi, gli sia piaciuto sin da subito. Certo poco in linea, almeno idiomaticamente parlando, con le sue origini franco-irlandesi, ma anche un abito caratteriale nel quale si sentiva perfettamente a suo agio. Tant'è che due sere fa, a Mosca, quando è tornato sul ring, qualcuno dal pubblico l'ha anche fatto riecheggiare in mezzo alle urla della gente per bene, abituata a vederlo interpretare i migliori peggior ruoli del cinema dell'ultimo trentennio. 

 

 

I graffi, le smagliature e le cicatrici - lavorate decine di volte da altrettanto cinici chirurghi estetici - che porta sul viso, d'altra parte, non sono solo figlie dell'estrema vanità e d'una voglia quasi nazistoide di fermare il tempo lì, negli anni '80, i migliori della sua (e forse non solo) vita. Ci sono sempre stati i fisiologici segni di una carriera da pugile, prima semi e poi professionista, da nascondere. Roba al cospetto della quale anche le lamette di Randy 'the Ram', con le quali auto-infliggersi profondi tagli sanguinolenti, impallidirebbero. 

Ah, già, the Ram. Il personaggio di 'the wrestler' è, a detta mia, sua, e del quasi intero cine-cosmo il migliore che abba mai interpretato. E, credetemi, detto da uno che sbava tanto per 'Angel heart' quanto per - masochista - 'Harley Davidson and the Marlboro Man' (un ruolo che ha ammesso di aver accettato solo ed esclusivamente per soldi), non è roba da poco. Eppure mai avrei pensato che, quel ruolo, un giorno sarebbe potuto diventare quasi autobiografico al contrario, con il cinema che per una volta ispira un'esperienza di vita, e non viceversa. 

 

Davanti - e lo dico con umiltà, dal basso dei miei sei mesi di boxe a livello ultra amatoriale -, in un incontro certo tecnicamente non esaltante, gli hanno messo un certo Elliot Seymour, ex atleta professionista con la personalità di uno dei tanti wrestler che concordavano con lui il momento in cui rimanere al tappeto al seguito dell'epico "Ram Jam". Che però, a differenza sua, che di anni ne ha appena compiuti 62 e che non saliva su un ring vero dal 1995, ha una carta d'identità che recita '29' (l'età alla quale Mickey stava per girare 'Rusty il selvaggio') ed una forma fisica assolutamente invidiabile. Non come el Marielito, che per andarsi a prendere quella maledetta borsa ha dovuto perdere 15 - non 35, come scrivono alcuni folli del copincolla sul web - chili e, soprattutto, recuperare uno stile di vita simile a quello di quando Darren Aronofsky e Robert D. Siegel, in sostituzione a Nicolas Cage, lo riesumarono dal semi-oblio cinematografico offrendogli il mai così graduto ruolo di Randy Robinson. 

All'epoca mise su oltre 20 chili di muscoli, ingaggiò un allenatore dell’esercito israeliano ed incarnò 'the Ram', quel "vecchio pezzo di carne maciullato" dai lunghi capelli biondi (tinti) che combatteva dal vero solo contro sè stesso, mentre per finta - ma solo fino a un certo punto - si suicidava nelle wrestle-arene cercando di sfogare una rabbia che faceva il paio con l'affabilità d'un carattere talmente schivo e lascivo da suscitare tenerezza. E nonostante le ferite procurategli dalle sparapunti sul petto, che null'altra fanno se non esasperare la condizione sociale del pugile al tappeto. L'uomo più solo del mondo.  

 

«Sono solo. E me lo merito»

(Randy "The Ram" Robinson. 'The Wrestler', 2008)

 

Perché anche i figli di puttana come Mickey possono ambire al Paradiso, per quanto la loro ricerca dell'autodistruzione, più morale che fisica, ricada banalmente nel calderone delle ambiguità d'una Hollywood stracolma di stereotipi, nella quale il bello e dannato quasi finisce per smarrirsi nella routine dell'offerta artistica. 

Il Nirvana di Randy 'the Ram', o di Mickey 'el Marielito', però, è diverso. E' un incontro di boxe combattuto (e vinto, in 4 minuti) all'età in cui i suoi coetanei pensano a che moduli compilare per la pensione. D'altra parte, come canta Bruce Springsteen nella struggente fiumara dei titoli di coda di 'The wrestler', non potrebbe essere diversamente per un cane con una zampa sola che cammina per strada, né per un uomo con una gamba sola che prova a danzare per trovare la sua libertà.

 

 

Nè, tantomeno, per un Mickey dal ciuffo argenteo che manda al tappeto un ragazzino. E' lì che chiudi gli occhi per una manciata di secondi, sollevi il viso in uno slancio mnemonico, fai un respiro lungo una vita intera, e ti lasci gonfiare il petto dall'assolo iniziale di 'Sweet Child O' Mine' dell'amico Axl Rose, che lo citerà poi nei ringraziamenti di 'Chinese Democracy'. Una baraonda energetica che el Marielito sceglieva, quando boxava per vivere, per salire sul ring e che ha voluto fortemente fosse anche la cornice sonora dell'ultimo (?) saluto alla sua Pam (Marisa Tomei, sexy come non mai), delle fitte al cuore che fanno di te un essere umano più d'ogni altro, e che aprono la pista all'ultimo, atteso, afflato di gloria e, forse, di vita.

 

«La boxe è il migliore e il più individualistico stile di vita

che si possa avere nella società senza essere un criminale»

Randy Neumann 

Alfredo De Vuono