Dopo un errore enorme, talvolta causato da imprudenza o da imperizia - quella che in fondo va sotto il nome di colpa - la cosa più difficile è porvi rimedio. Se si tratta di rimediare alla tragedia, allora nessuna condanna compenserà i suoi effetti. La storia del giudizio è piena di illusioni a riguardo.

La fase di appello ha ridotto a 16 anni la pena inflitta in primo grado a Daniele De Santis, colpevole della morte di Ciro Esposito, il ragazzo napoletano scomparso al Policlinico Gemelli dopo quasi due mesi di agonia in seguito alle ferite riportate nel pomeriggio del 3 maggio 2014, nella zona di Tor di Quinto, a Roma, durante gli scontri tra alcuni tifosi partenopei e romanisti prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. La prima condanna, quella in primo grado, era stata di 26 anni. La prima Corte d'assise d'appello di Roma ha motivato la riduzione della pena con l’assoluzione dall'ulteriore reato di rissa, nonché dall'esclusione dell'aggravante dei futili motivi e della recidiva. La sentenza, che riduce notevolmente la pena decisa in primo grado, ha destato molte polemiche sui social network e tra le parti in causa, ivi compreso un acceso scontro verbale tra i familiari della vittima e dell’imputato. Intanto non sono pochi quelli che interpretano la situazione come l’ennesimo caso di ingiustizia giudiziaria.

Evitando di sentenziare sulla sentenza, oltre che cercare di analizzare criticamente il percorso delle due decisioni, tra il primo grado e l’appello, forse non sarebbe così assurdo soffermarsi su aspetti che possono far parte del processo soltanto in via strumentale, ma che di fatto non riguarderanno altri tipi di responsabilità. Non sappiamo se qualcuna di queste sia grande, grave e se resterà impunita per sempre. Del resto, l’unica punizione certa affligge sempre il desiderio della verità. Le colpe degli eventi ricadono sempre sulla speranza di contemplarne serenamente e completamente ogni aspetto, ogni angolazione. Invece tutto deve ridursi soltanto alla contesa tra le rabbie e i dolori privati. Fatti e verifiche sono padri e figli.

Sin dalla sera della partita la conduzione della vicenda è stata affidata alla superficialità, alla sete di sensazionalismo e all’imbarazzo di chi, media, politica e forze dell’ordine compresi, ha talmente smarrito il senso della gravità delle cose, da lasciare che chiunque potesse sostituirsi ai doveri e alla lucidità della responsabilità. Un potere in fase di soccorso. E a farsi simbolo dell’ebbrezza morale è stato chi, per esempio il capo ultrà dei tifosi napoletani nei tanto discussi frangenti precedenti il fischio d’inizio, ha confermato che in certi momenti non sono le singole persone a poter creare scompiglio, al di là dei ruoli e delle funzioni, dei torti e delle ragioni, ma le condizioni che lo determinano. Una predeterminazione del caos. Una sorta di aggravante di reato, volendo restare in tema.

Così è stato pure per quel tragico pomeriggio. Le contraddizioni “postume” di un ministro che con leggerezza ha dimostrato, e nessuno saprà mai se in buona fede o per altre ragioni, di non conoscere bene una situazione che nella città di Roma conoscono quasi tutti. Sicuramente la polizia avrebbe dovuto sapere che dove è avvenuto lo scontro tra tifoserie le frequentazioni di frange estreme del tifo giallorosso non sono un mistero. Più che domandarsi come sia possibile che il secondo grado abbia ridotto in maniera così sensibile la condanna di 26 anni decisa in precedenza, verrebbe ancora da chiedersi come sia possibile che un questore, dopo quanto accaduto, dichiari serenamente, come a suo tempo avvenuto: “Quanto all'ordine pubblico, è andato tutto molto bene”

E poi, al di là di ogni aporia, di ogni mancanza di chiarezza, di ogni desiderio di fermezza, che significato e che valore ha avuto e sta avendo questa storia? La comparsa di certi striscioni dopo molto tempo, uno minaccioso comparso allo stadio San Paolo durante un Napoli-Roma e una serie di miserevoli ironie “sparse” in curva all'Olimpico in occasione di un Roma-Napoli sono la dimostrazione che il calcio sia un luogo di conservazione della violenza e non soltanto di occasione per la violenza. In un paese dove fuori allo stadio i controlli a volte hanno del paradossale, e dove molte altre grottesche contraddizioni caratterizzano la gestione dell’ordine pubblico, l’ingresso di certi striscioni, come tante altre manifestazioni evidenti e inspiegabili, rappresentano un favoreggiamento all’allevamento della violenza e non al suo presunto e propagandistico contrasto.

Tutto questo può essere garantito soltanto nei tribunali? La giustizia può essere solo figlia del lavoro di una magistratura che spesso non “delude” soltanto in queste storie? Dal dopoguerra a oggi l’Italia abbonda di sentenze e casi giudiziari difficili da accettare. Adesso, senza voler individuare colpe e responsabilità oltre quelle chiamate a farsi giudicare, ma soltanto cercando di guardare un po’ più in là, ci si può chiedere quando saranno processate le imprudenze mediatiche? Quando sul banco degli accusati saranno chiamati anche quelli che godono dell’abuso di poter aggirare spiegazioni, magari fornendone altre non del tutto vere? Quando chi ne ha facoltà dimostrerà di voler veramente opporsi a certi fenomeni invece che servirsene? Quando il processo sarà celebrato sulla realtà e non suoi effetti? Effetti di cui ci si accorge soltanto quando è troppo tardi. E il tardi troppe volte ambisce a ripetersi.