Andrebbe fatto un monumento a quella posa con la cartellina alzata in una mano e il microfono nell’altra. L’armonia discobolare di un corpo parola e un entusiasmo del pensiero. Lo sguardo al mondo, gli occhi alla persona. Per me, Gianni Minà era così. Il rapporto in una discreta e tenera proporzione tra la problematicità macroscopica degli eventi, dei fatti umani e il dettaglio sensibile e puntuale del pathos privato. La sua narrazione procedeva secondo un sillogismo semplice e acuto, un’analogia per la quale l’avvicinamento al particolare era un ponte sopra il panorama della vita.

C’è stata la voce di un tempo per il tempo. Il raccordo narrativo tra le stoffe pregiate di un secolo e i ritagli abbandonati lungo la strada di un’epoca che ha riunito vittime e carnefici, diseredati e privilegiati, miserie e meraviglie dentro lo stesso grande e drammatico ricevimento. Un caos di gala a cui abbiamo preso parte tutti. E ancora oggi sostiamo, sfatti e confusi, sulla soglia di una disorientata perseveranza. 

Gianni Minà in quel ricevimento ha contemplato il sistema in contraddizione che ha condotto le danze. Lo ha interrogato a sua insaputa, la ha disteso sul planisfero dei luoghi disconosciuti, creando una nuova e inedita camera di separazione tesa ad ospitare la grazia e la lucidità della serenità di osservazione, della leggerezza contraria alla superficialità, del monito che a festa finita nessuno saprà a quali stanze quest’epoca-vita ci avrà condotti. 

Gianni Minà ha avuto in sé lo stato di grazia di chi da lontano avverte le gioie autentiche altrui, le passionalità autentiche, i contrasti autentici, persino nel giogo dei tranelli e dei misfatti che il suo Mestiere misto alla vita hanno saputo e dovuto affrontare, nonostante questa combinazione comporti un incespicare talvolta incompreso, un’apparente esitazione che non è indecifrabilità, ma l’attesa onesta, onesta prima di tutto verso se stessi, di comprendere dove l’arrogante folla delle ragioni spinga via le sagge titubanze dei torti.

Gianni Minà si è sporto sopra le balconate del potere costituito, si è messo il vento in faccia nell’America Latina degli orrori nascosti e dei luoghi a procedere di quei transiti storici varcati e percorsi da ambigui accordi lunghi interi continenti. Gianni Minà ha gioito e sofferto per il sud senza essere del sud. Gianni Minà ha parlato coi grandi e ai grandi, senza sapere di esserlo anche lui. 

La sua voce, il suo timbro delicato sopra le parole esatte dove domande e risposte si tengono per mano, adesso sono uno spartito, una musica, una romanza lunga una vita che ha avuto modo di addentrarsi dentro un tempo che si è portato addosso tanti altri tempi. E la sua stanchezza, con altrettanta dignità, ha lasciato cadere il carico poco per volta, salutando viandanti e compagni di viaggio. Adesso Gianni Minà se ne sta dove se ne stanno le parole uniche e multiple. In un solo suono. A contenere la commovente nostalgia di quello che è stato. Con un orizzonte che sa di alba e di tramonto.