"Qualche ora o qualche anno di attesa della morte è lo stesso, quando si è perduta l'illusione di essere eterno."
Jean Paul Sartre


Maradona l’ho salutato in quel pomeriggio di marzo del '91, dopo aver visto allo stadio la sua ultima partita. Senza saperlo, gli avrei detto addio. Sì, perché dopo quel pomeriggio niente sarebbe stato più come prima. Negli anni a venire tutto sarebbe coinciso con una grande perdita dell’innocenza. Pure lui. Pure la sua corsa ai miei occhi non sarebbe stata più come quella dei sette anni a Napoli. E quei sette anni hanno rappresentato un emblema perfetto. Nei minimi dettagli il Maradona di Napoli si era consumato tra la felicità del suo arrivo, le prime stagioni, rabbiose e spensierate, le successive segnate dai trionfi e da una lenta e progressiva corrosione della sua presenza. Del resto, quella corrosione sarebbe stata pure la fusione con tutti quelli che lo avevano amato. 

Il prosieguo della sua carriera, l’ultima fase, tormentata e spettacolare, avrebbe fatto da prologo a un costante corpo a corpo con la paura che l’epilogo non sarebbe stato così distante dalla conduzione. Per Maradona abbiamo temuto tutti. E non una volta soltanto. A più riprese ci siamo detti che lo avremmo visto cedere alle cose che non tutti avevano imparato ad accettare. Non essersi salutati come avrebbero fatto in tanti, non essersi salutati affatto, questo sì, in fondo, è servito. È servito a domandarsi quanto di noi stessi sarebbe rimasto inchiodato a quel pomeriggio di fine inverno. Quanti, ancora oggi, si domandano se dietro quei prodigi non ci siano stati anche dolori inconfessati, pressioni insostenibili, in un contorno di menzogne che già covavano la perpetua requisitoria a cui quell'uomo sarebbe stato sottoposto. Intimamente ognuno sa se ha ceduto soltanto per un istante alle tentazioni della miserabile commedia dell'illazione umana. 

Chi vi scrive non fa parte di quelli che lo hanno conosciuto di persona o anche soltanto avvicinato almeno una volta. Non possiede aneddoti o curiosità personali. Conserva solo l’aver vissuto quegli anni e l’averlo visto giocare dal vivo. L’aver fatto parte in anonimato di quel panorama ricolmo di felicità e raccolto ai suoi occhi sotto un nome solo. Un uno e centomila come l’anno e il secolo che senza alcuna differenza distanziano quel pomeriggio di marzo dal giorno della sua scomparsa. È il vantaggio di aver ricevuto senza conoscersi. È più vivo il tifoso che da ragazzino correva allo stadio per andare a vederlo, che quello che oggi riordina il vecchio e il nuovo di un mondo che non esiste più. In questi casi, la vita e la morte contano poco. Resta la dolce condanna e la cieca ostinazione a cercare invano quegli occhi nelle cose future. 

Allora, quel saluto, sordo e represso in un imbarazzo di assurde e ingrate contestazioni, non fu solo per lui, ma per me stesso. Dopo, tutta una maturazione nelle macerazioni della vita. L’unica lotta, quella della conservazione sacrale di quel ricordo. Come i grandi amori perduti. 
C’è stato un tempo, improvvisatosi con una struggente e irripetibile felicità al suo principio e alla sua fine. C’è stato un tempo. E adesso perdonatemi se mi fermo qui.