Oriali pare sia stato mandato via dall’Inter, Zanetti per averlo difeso non è andato a genio alla proprietà e Mourinho in una delle sue ultime conferenze stampa si è mostrato più prudente davanti a quella platea di giornalisti che spesso, non a torto, aveva esplicitamente sgradito, e l’aria non sembra ancora la stessa.

“Gli amici, piano piano, se ne vanno via”. Senza caderci, nel circolo vizioso. Soltanto affacciati, come in un’ora di pausa a chiacchierare del più e del meno. È in quei momenti che si rischia di riuscire addirittura a parlare. Durante il calcio in regime di pandemia il calcio e le persone hanno detto addio a più di un pezzo di storia. Fino a pochi giorni fa, col Muller silenzioso e discreto finito in preda al destino riservato ai poeti che hanno sempre più voglia di starsene in silenzio.

Parlino le ragion di Stato, pardon, di società, che fanno e disfano senza tenere più conto di quel segno d’appartenenza che dovrebbe contraddistinguerle. Qui non si stabiliscono i torti e le ragioni, perché nel calcio, come in molte altre cose, si bada più a costruirsele, le proprie ragioni, invece che provare a svelarsi con un pizzico di sincerità. Non in nome di qualche retorica. Soltanto per provare l’ebbrezza della responsabilità. Le società non vogliono bandiere, si oppongono ai rinnovi di contratto e le bandiere fanno resistenza. Ciascuno sulle proprie posizioni, che conoscono soltanto loro e chi non vuole o non può rivelarle. È accaduto tante volte in passato. Succederà ancora. Almeno, fino a quando ci saranno aste e bandiere. Alcune vere, altre mai state tali.

Quando le società perdono parti importanti, siano esse dirigenti, calciatori, allenatori, i giornali scrivono smantellamento. Chissà che invece non siano ricostruzioni. E alcune volte avvengono contentando pure i Mourinho. Persino la loro pazienza e la loro speranza di aspettarsi qualcosa di meglio quando sarà possibile. 
Intanto, nel Napoli proprietà e Insigne non sembrano predisposti a un facile disgelo. Principio? Contrasti extra contrattuali? O dell’altro che per l’ennesima volta turba la tensione della bandiera? Poco vento e troppe speranze. E pare che anche qui sia difficile capire dove stiano i torti e dove le ragioni. Forse, ambo le parti.

Una piazza, quella partenopea, dove da troppo tempo tra società, calciatori, stampa e ambiente scarseggiano i gesti di distensione e simpatia. Adesso, ognuno è libero di farlo apparire come crede, così come immaginarselo, come crede; resta il sospetto che percepirlo come un gruppo con lo sguardo basso non è questa scandalosa follia. E quella che fino a pochi anni fa era una piazza identitaria, ora soffre prima di tutto per averla perduta, quella possibilità di riconoscersi. 

Dopo un anno e mezzo, una parziale restituzione del pubblico allo stadio reclama pure altre restituzioni; soprattutto, che il calcio che si augura post pandemico si restituisca un po’ a se stesso, invece di fingere di essere felice e di palleggiarsi addosso. Il problema non è che vengano rimossi dai loro incarichi gli Oriali, non è che i simboli decadano a favore di ragioni a freddo. Il problema è il rischio che un domani non ce ne siano più.