Niente di nuovo, verrebbe da dire. La Lazio ha fallito ancora una volta l'appuntamento con la fase a gironi della Champions League: quasi un must, nell'ultimo decennio biancoceleste. L'ultima volta che questa squadra conquistò sul campo il prestigioso traguardo fu nel maggio del 2007, primo campionato dopo il terremoto Calciopoli (motivo per cui si partì dal -3). Nonostante tutto, terzo posto finale specie grazie alla premiata ditta Rocchi - Pandev e sorteggio nel raggruppamento con Real Madrid, Olympiacos e Werder Brema. Due pari all'esordio con greci e - soprattutto - Merengues, un successo ai danni dei tedeschi e poi nulla più: quarta piazza con cinque punti. Esperienza tanto intensa quanto breve.
Da lì, il calvario. Nelle tre annate successive nemmeno l'ombra di un possibile inserimento nelle posizioni che contano: dodicesima, decima e dodicesima, con in mezzo l'esonero di Delio Rossi e l'arrivo di Davide Ballardini. Ma anche con due "salvagenti", entrambi nel 2009: la Coppa Italia targata Mauro Zarate in finale contro la Sampdoria di Mazzarri, Cassano e Pazzini e l'inattesa Supercoppa di Pechino al cospetto della semi-invincibile Inter di Josè Mourinho, destinata a vincere il Triplete qualche mese più tardi.
Il cambio di marcia avviene con l'approdo nella Capitale di Edy Reja che, dopo aver centrato l'obiettivo salvezza nel 2010, inaugura un'appassionante lotta a distanza con l'Udinese. E' la Lazio di Hernanes, il nuovo craque proveniente dal Brasile che si abbatte come un tornado sulla nostra Serie A. E' una Lazio che incanta, specie nel girone d'andata. L'evidente calo palesato da gennaio in poi riporta i biancocelesti coi piedi per terra, dopo aver pregustato il sogno di andare persino oltre l'approdo nella Coppa della Grandi Orecchie. E, alla fine, ecco l'amaro verdetto: quinto posto a quota 66 (allora fu record nel campionato a 20 squadre), niente Champions per via di una peggiore differenza reti rispetto ai friulani (+14 contro +22), nonostante la parità negli scontri diretti.
Altro giro, altra corsa. Dal mercato arrivano nomi pesanti: Klose, Lulic, Cissè, Marchetti, un giusto mix tra solide certezze e talenti in rampa di lancio per tentare l'all-in Champions. Ma la beffa è ancora una volta dietro l'angolo. E' di nuovo l'Udinese a spuntarla con 64 punti per il terzo posto e i conseguenti preliminari (nel frattempo i posti utili per la kermesse europea sono scesi da quattro a tre), +2 sui capitolini che, come se non bastasse, per via della conquista della Coppa Italia da parte del Napoli sono persino costretti al preliminare estivo per giocare l'Europa League.
Passano altre due stagioni di transizione (settima e nona, intervallate dalla storica Coppa Italia 2013 nel derby del 26 maggio, con Petkovic in sella), poi si arriva in epoca recentissima. Campionato 2014/2015, quello dell'esplosione di Felipe Anderson (che raggiunge la doppia cifra così come Klose, Candreva e Parolo, oltre ai 9 centri di Mauri e gli 8 di Djordjevic), della cooperativa del gol targata Pioli (71 marcature, una in meno della Juventus campione d'Italia), del 4-2 al San Paolo all'ultima giornata che estromette aritmeticamente il Napoli di Higuain e Benitez dal discorso terzo posto. Ma è anche l'annata degli obiettivi falliti: KO contro la Juventus in finale di Coppa Italia e di Supercoppa italiana. In mezzo, la delusione più cocente. Il preliminare che vide Keita e compagni fronteggiare il Bayer Leverkusen faceva ben sperare nelle premesse, ancor di più dopo l'1-0 ottenuto all'Olimpico grazie proprio alla rete del senegalese. Al ritorno, black-out totale: 3-0 sul groppone rimediato alla BayArena e tanti saluti, per l'ennesima volta, alla Champions.
Quella di quest'anno, probabilmente, è quella che fa più male.
Perché il nostro Paese aveva riacquistato i quattro fatidici e preziosissimi posti, senza nemmeno l'onere del preliminare ad agosto.
Perché la Lazio era sempre riuscita a galleggiare tra il terzo e il quarto posto e mai aveva dato segnali di cedimento fisico e mentale.
Perché in 38 partite la banda di Inzaghi ha messo a referto la bellezza di 89 gol (miglior attacco del torneo), con Immobile, Luis Alberto e Milinkovic-Savic capaci di battere ogni record personale e di squadra, impressionando per manovra, intensità e intesa reciproca.
Perché la Var, storica rivoluzione del nostro calcio al primo anno di (necessaria e tardiva) applicazione, non ha funzionato come avrebbe dovuto: in caso contrario, si sarebbe arrivati allo scontro diretto di ieri sera con un divario tra le due contendenti non di 3 ma di almeno 6-7 punti. Un dato di fatto, oggettivo.
Perché stavolta a contendere il traguardo più ambito non c'era la rognosa Udinese di Guidolin, ma l'Inter di Spalletti: incostante, eppure alla fine vincitrice.
Inutile gettare la croce addosso a De Vrij, con tutte le ipotesi di malafede e condizionamento psicologico annesse e connesse: è andata così, non si torna indietro. Riprovarci l'anno prossimo è un dovere morale, più che un imperativo. Per premiare una tifoseria che assapora eccome le quattro coppe nazionali alzate al cielo negli ultimi dieci anni. Ma che vorrebbe anche tornare ad ascoltare a casa propria quella magica musichetta.