“Quella corsa sotto la curva degli atalantini è tutta colpa di Roberto Baggio. Iniziamo a dire le cose come stanno” avrebbe dichiarato, con quella sua ironia dal tono serioso, Carlo Mazzone in un’intervista alcuni anni dopo. E come dargli torto. In quella domenica passata alla storia come la trasposizione professionista dell’anima irrefrenabile del campo di periferia. Il tempo l’avrebbe trasformata nel pasto retorico pronto all’uso, a dispetto di quel congedo che lo stesso Mazzone si era dato nell’autopunizione in anticipo pure sulla sanzione di Collina, anche lui messo in fila da una tra le esultanze più belle della storia del calcio italiano.

E non sarebbe potuta provenire da un uomo che ha attraversato mezzo secolo di pallone. Diviso tra il suo spirito indomito e le vicissitudini amare e irrisolte di un calcio in piena versione di Novecento. Carletto Mazzone è stato una figura calcistica uscita da una pellicola di Mario Monicelli e Camillo Mastrocinque. Un Memmo Carotenuto coi panni del “solito ignoto” e del brigante di paese dal cuore buono. Contro e a favore, ma mai tutto insieme. Mai col vento della diplomazia che risolve un bel nulla. 

Mazzone ha raccontato prima di tutto un calcio destinato a fare scuola per la sua iconografia, la sua sonorità un po’ teatrale, facilmente irritabile, guascona e di tanto in tanto dimessa, con la parola sottratta e l’aria del lasciamo perdere. Mazzone ha soprattutto allenato quel linguaggio essenziale e diretto rimasto a consolare quel futbol di cui il tempo avrebbe fatto piazza pulita. E allora quanto valgono le tecniche e le evoluzioni tattiche davanti alla salvaguardia di qualcosa in grado di dialogare coi fuoriclasse tanto quanto la parte gregaria e dimenticata di una disciplina che non vuole che gli indisciplinati superino l’efficacia del suo codice di controllo?

I balbettii, i morsi alle frasi lasciate incomplete, fino alle grida dalla panchina contro chiunque, dall’arbitro a un avversario, da un proprio calciatore a un tifoso. Il rettangolo di gioco nel suo insieme dove c’è pure chi non si vede, fino a portarselo a casa, come le scartoffie di un impiegato. Il cuore invisibile che palpita pure quando il suo battito non sarà più ascoltato. 

“Baggio, Totti, Guardiola et cetera. Ho avuto la conoscenza di questi grandi calciatori che con grande fiducia mi hanno sempre rispettato e che sono rimasti soddisfatti. E mi fa piacere”. Detto con la timidezza e la prudenza di chi quasi sembra che sia stato un onore solo per lui. Così, senza nemmeno scovare la dimensione perfetta di un rapporto che le dimensioni, in fondo, le supera tutte. Da oggi percorrere quella regione esclusa dal gioco, da cui un uomo solo si affanna per guidarlo, non sarà più la stessa cosa.