L’unica cosa che il pallone riesce a fare sopra ogni cosa è la sospensione della realtà. La trasforma in un oblio dolcissimo stillato in una escalation di tensioni. La seconda ora della finale del campionato del mondo ha messo da parte il silenzio intorno ai diritti umani calpestati per la preparazione di questo mondiale e tutto il superficiale che in qualche frangente di troppo ha annebbiato il vertice della percezione, fino all’emozione. 

Ci hanno pensato due calciatori non proprio normali. Messi e Mbappé. Uno capace soltanto di giocare divinamente, l’altro incapace di sottrarsi alle sue doti da predestinato. Il risultato è un dettaglio. Deve essere un dettaglio. Se si vuole superare per un istante la linea tracciata da un intendimento tedioso della cosa più bella della vita, il ricordo, cancellate quei calci di rigore. Fermate tutto alle prime due trasformazioni. La doppia firma in calce dei due giocatori migliori del mondo. In barba al Barba, come lo chiamano proprio gli argentini. A quel Dio pregato e paragonato agli uomini in grado di realizzare cose eccezionali. E invece sono e resteranno sempre uomini uguali alle proprie possibilità.

I tifosi francesi troneranno a casa col buio nel cuore, ma nei prossimi giorni matureranno la memoria di aver vissuto qualcosa di meraviglioso, con l’orgoglio di essersi sentiti rappresentati da un loro campione sconfitto da una conta, da chi è andato a decidere il risultato per lui senza essere lui. Un vicariato che lascia il tempo che trova, quando la partita più importante che si disputa ogni quattro anni, a un certo punto, dopo un’ora di desolazione, decide di abbandonarsi a se stessa per dare vita al più violento degli spettacoli. Se avesse vinto la Francia, per gli argentini sarebbe stata la cosa. Sarebbe valso lo stesso principio. Pure per Messi, che campione lo era già prima. Senza quella costanza in paragone con Maradona.

La parola paragone deriva dal greco παρακονάω: affilare, sfregare contro. Un’accezione tremenda ne segna il significato. Con tutta la sua conflittualità fine a se stessa. Il paragone è un limite del pensiero e della sensibilità. Ha specchi per pareti e rimbombi per rumori di fondo. Questo paragone è sempre e solo servito a chi ha voluto proseguire una battaglia squallida e vile nei confronti di Maradona anche dopo che il calciatore più rivoluzionario della storia del calcio aveva smesso di giocare. Trovato un erede potenziale, quei qualcuno hanno iniziato la più improvvida delle crociate per cercare di mettere in ombra una figura che in ombra non potrà mai finire. Che mai potrà passare il tempo irraggiungibile di chi ha dettato le regole per dividerla dalla luce.

Messi, Mbappé e altri grandissimi calciatori non servano a paragonarsi, ma a far vivere la cosa più bella del gioco del calcio: la sua capacità di infondere tutto quanto la quotidianità non è in grado di fare. Chi ama il futbol sa che la sua è una funzione da venticinquesima ora. Un istante oltre la durata del giorno. E l’oltranza disperata dei due giocatori che hanno dato vita a una delle più emozionanti partite della storia ha scandito l’ora ulteriore che non si arrende al cinismo dell’assegnazione.

Chi conosce il calcio - e per conoscere non dev’essere inteso il suo aspetto tecnico, ma quello della percezione, del suo sistema di sollecitazioni - sa bene che mai come questa volta quei calci di rigore rimpiccioliscono a dismisura davanti all’occasione di guardare a qualcosa che avrà coinvolto emotivamente pure chi non era parte in causa. Che per un’ora sono saltati gli schemi e i calcoli, le premeditazioni e la razionalità. Che per un’ora, la venticinquesima, ventidue giocatori non si sono risparmiati per arrivare dove l’epica del calcio aspetta i suoi sfidanti per farli ruzzolare giù dalla più ambita delle vette. Stavolta non sarà difficile riconoscere il merito che a sedersi lassù possano essere anche in due. Contro ogni principio e ogni paragone. Il primo mondiale senza Maradona.