Doverosa premessa: il Real Madrid, nella storiaccia che fa vivere una vigilia mondiale inquieta ai tifosi spagnoli (categoria alla quale peraltro gli stessi tifosi madrileni dovrebbero appartenere) fa il suo gioco. Ovvero quello di tappare la falla sulla panchina, entro pochi giorni dallo shock-Zidane, e prima che il vento delle lotte intestine, dei mal di pancia del disorientamento rendesse la fiamma delle polemiche ancora più vigorosa, e la situazione ancora più incandescente. E di farlo entro i limiti regolamentari del mercato (abbiamo nel frattempo scoperto che Perez aveva contattato anche Allegri).

Come, è secondario. Nella vicenda Lopetegui il fine (tutto madrileno) ha giustificato i mezzi, ancora una volta: poco importa che la Roja perda, platonicamente come sarebbe stato a causa dell’annuncio in tackle fuoritempo del Real, o concretamente  come è stato a causa della audace (ma apprezzabile) determinazione della Federazione, il proprio ct a 48 ore dall’esordio di un Mondiale al quale si presenta (presentava?) tra le più credibili pretendenti. Ct, tra l’altro, fresco di rinnovo, pochi giorni fa. Il danno di tutti per il bene di uno può essere facilmente derubricato ad antipatico contrattempo.

Possiamo raccontarci che sia antipatico ma normale quello che è appena successo nelle iberiche faccende. Possiamo anche ritenere che la reazione della Federazione sia spropositata e visceralmente controproducente. Possiamo persino fare la fatica di crederci. Il punto nella bufera spagnola, però, è decisamente un altro. E, normalità o meno, logiche di mercato o meno, ha a che fare con l’ormai preoccupante cristallizzazione dei rapporti di forza (meglio, di dominio), con l’ormai consolidata oligarchia nella dialettica del potere calcistico, con il placet della governance internazionale. Con il gioco di pochi, e sempre quelli. Con la manifestazione ennesima di sé, probabilmente anche legittima (non contravvenendo il Real a nessuna regola, se non quella non scritta della opportunità nei confronti del suo stesso Paese) di chi tutto può, e di chi sa di poterlo.

La FIFA, per bocca dell’appena ricandidatosi Gianni Infantino, ammette che qualcosa non è andato e non può andare, ma quando si parla di blancos e di pochi altri nel Club degli Eletti, sono spallucce e pacche sulle spalle: “Il regolamento impedisce l'acquisto dei giocatori mentre sono sotto contratto con un'altra società, ma non è lo stesso per gli allenatori. Non esiste una norma in tal senso, dopo ciò andrà presa in considerazione una revisione della norma".

Legittimo, insomma, ma non per questo edificante. La questione è che, su ciò che appare non edificante, le massime istituzioni calcistica si confermano sconstanti, umorali, e insomma sensibili a seconda che si appartenga alla Serie A o alla Serie B del calcio, dell’economia, e del proprio cuore. Il gioco di pochi, e sempre quelli.

Quasi automatico che il pensiero vada anche al campo del Fair Play Finanziario, contesto nel quale sembra bastare l’appartenza al Club degli Eletti perché tutti sia veniale, tutto perdonabile, tutto patteggiabile. Che vada all’UEFA, accomodante con il PSG di turno (altra eccellenza nel club di cui sopra), di buon senso su natura e provenienza del denaro che consente l’acquisto di Neymar, certosina e scrupolosa nell’esigere l’identikit dei finanziatori ambigui (in questo caso certo che sì) di Yonghong Li, quasi il compito della governance europea non sia quello di basarsi su conti, cifre e dati certi, ma quello di andare alla caccia di identità misteriose come se il FPF fosse un quiz di prima serata. “La posizione intransigente dell’UEFA con il Milan è andata al di là”, scrive in questi giorni Marco Bellinazzo, giornalista de Il Sole 24 Ore. “Quella dell’UEFA è una posizione che dev’essere documentata in maniera precisa, c’è una libertà di impresa che va tutelata”. Poco mistero e molta certezza sul polso di chi governa il calcio, e che in questi anni si palesa debole con i forti e forte con i deboli. Destinati, fatalmente, a restare sempre più forti e sempre più deboli.

La coscienza di sé e del proprio peso, passa anche attraverso episodi non sanzionabili ma non per questo bellissimi come quello di Lopetegui: siamo noi, siamo forti, siamo in grado di dimostrare la nostra forza nei momenti in cui ci sembra opportuno. Il problema? Parrebbe tutto della Spagna, autolesionista nell’intransigenza della propria Federazione. Infantino non sarà stato tranchant con uscite del tenore del “è un problema della Spagna”, come alcuni dirigenti federali nostrani su recenti grane nostrane, ma certamente nelle dichiarazioni del n.1 della FIFA sembra finire tutto a tarallucci e sangria. “Non è la situazione ideale per la Spagna, ma nel calcio niente è impossibile, auguro il meglio a Lopetegui per il suo futuro al Real Madrid e alla Spagna per i Mondiali”, è l’audace chiosa di Infantino sulla vicenda.

Perché una manifestazione di onnipotenza venga messa in atto, sono necessarie due cose: qualcuno che sappia di essere onnipotente, e qualcuno che glielo lasci credere. Meglio se con spallucce e sorriso.