Ci ho provato diverse volte, sempre con esiti non all’altezza. Qualcosa è anche andato in rete, non ricordo bene. Il che dice tutto.
E’ quella mia vecchia maledizione: gli altri dicono che scrivere mi riesca benino, ma non sanno che quando provo a scrivere di qualcuno che mi prenda testa, petto e viscere, mi viene qualcosa di inevitabilmente brutto. E’ capitato con mio nonno, è capitato con quella donna che ho amato. E’ capitato con te.
Magari è la testa, magari è il cuore, magari è la pancia, che non ce la fa. M’è sempre venuto brutto, qualcosa che mi prendeva sul serio. E dubito che oggi farò eccezione. Ma ho iniziato, e mi piace pensare che sono a buon punto.
Otto anni che non ci sei, e nel giorno in cui gli innamorati si festeggiano, io per circostanze, maledetta fortuna o altro, in questo giorno continuo a pensare solo a te. Alla fine della giostra, quando smetteranno di girare tutte come fanno da un po’ di tempo in qua, e rimarrà davanti a me soltanto quella “del per sempre”, beh, a questa donna glielo dovrò proprio spiegare, credo, che San Valentino non è proprio cosa per noi. Poverina. Gli innamorati si festeggiano, ed io penserò sempre a te. Dimmi tu se non è amore questo.
Provare a metter luce in quello che si muove stanotte qui dentro, prima che come al solito faccia troppo male, mi restituisce non solo i pomeriggi, la gioia, le lacrime, la pena, lo shock, l’alba del viaggio, il freddo al tuo funerale, la roba che intorno al mio letto dice ancora di te, la maglia autografata dentro il cassetto, mio padre, i miei amici, la bicicletta. La bicicletta.
Mi restituisce anche quello che mi hai lasciato detto.
Mi hai lasciato detto che è impossibile rimettersi in piedi solo quando ti sembra impossibile. Che l’impossibilità va ignorata, si fa finta che non ci sia. Per lei, come una bella donna lasciata in un angolo, è un colpo tremendo, e alla fine l’impossibilità se ne andrà facendo rumore coi tacchi, col culo alto e toccandosi nervosamente i capelli. Che se una cosa è impossibile, come rimettersi in piedi quando un ferro di trenta centimetri ti passa la gamba da parte a parte, tu non farglielo sapere. Inganna l’impossibilità, e se ne andrà.
Mi hai lasciato detto che la gioia che dai alle persone deve bastare a sé stessa, che non bisogna attendersi in cambio qualcosa, perché non arriverà. Mi hai lasciato detto cos’è, quell’affetto non tamponabile che si sente per quelli che, alla fine della giostra, sono sempre gli unici che pagano. Mi hai lasciato detto che chi giudica la disperazione di chi la fa finita, significa che non è mai stato disperato. Non sa cos’è la solitudine, non sa cos’è cedere, perché forse un motivo per non farlo l’ha sempre avuto. Mi hai lasciato detto che la cocaina è una merda, mi hai lasciato detto che sentire è una cosa che va fatta col cuore, non con le narici.
Mi hai lasciato detto che si è soli anche con tutta la gente del mondo intorno. E non si è soli neanche da soli, neanche in una cassa. Perché tu sei qui, e qualcosa vorrà dire. Altro che solo.
Mi hai lasciato detto che quando fai bene quello che gli altri non fanno bene, la gente ti vuol male. Ma che il peso di chi ti vuole bene comunque, senza interessi, senza volerne conoscere la ragione, senza condizioni, deve sempre essere più forte, sulla bilancia, deve sempre valere di più.
Mi hai lasciato detto che quello che hai fatto è davvero grande. E non si parla di strada, di monti e nuvole. Si parla del fatto che sono otto anni, e tu sei qui. E sarai qui, a far impazzire di rabbia chissà quale donna, che si chiederà perché mai non ha il diritto di festeggiare un San Valentino che sia uno, ti odierà con tutta probabilità, e non riuscirà a spiegarsi cosa diavolo abbia mai fatto per il suo uomo questo Marco Pantani.
Ezio Azzollini