Chi ha messo, anche solo per caso, almeno una volta il naso nell'ormai popolare mondo del texas hold'em, di certo conoscerà il significato del termine "all-in". In gergo, fare all-in significa 'esporsi completamente, puntare tutto ciò che si ha a disposizione, e rischiare dunque il tutto per tutto'. O giù di lì. Sono un giocatore anch'io, e conosco bene l'importanza d'una scelta focale come questa.
La prima domanda che un giocatore capace si fa è: "ho in mano il punto che mi consente di rischiare così tanto, con un buon margine di vittoria?". La seconda, ma non per importanza è: "ne vale la pena? Ciò che sto puntando, ovvero tutto, può potenzialmente portare un benefit tale da giustificare il rischio?". Bene, se entrambe le domande prevedono risposta positiva, allora è giusto e saggio - sempre come la dialettica di questo universo insegna - andare all-in.
'Rischio': questa è la parola sulla quale anche il nostro Premier, ieri, ha puntato i riflettori. Rischio eccessivo, quello a cui ha deciso di non esporre il nostro (e suo) Paese: un impegno gravoso e non sotenibile, quello dell'organizzazione delle Olimpiadi del 2020.
Anzi, visto il contesto di questo pezzo e le motivazioni alla base della dolorosa scelta, le 'All-In-piadi'.
Il 'no' è dovuto appunto all'azzardo che avremmo dovuto correre. La messa in scena - ma soprattutto in opera - d'un palcoscenico così ampio e variegato avrebbe, London 2012 docet, previsto un impiego minimo di risorse pubbliche per la modica cifra di cinque miliardi di euro. Oltre, ma questo poco importa, una somma altrettanto grande di investimenti privati. Il tutto, a fronte di un ritorno economico - parole di Alemanno, Sindaco di Roma e diretto interessato deluso, a posteriori - non superiore ai 500 milioni. Si, certo, ma tale previsione a lungo termine non tiene conto di determinate variabili, del ritorno d'immagine, di quanto di armonioso ed eticamente fruttuoso avrebbe un mastodontico investimento nello sport come questo, diranno in molti.
Ma per quanto sia difficile per una testata come la nostra, che vive e sguazza nel mondo dello sport, prescindere da quest'ultimo punto, sono proprio le variabili a mettere paura: da che mondo è mondo, infatti, l'impiego di risorse finanziarie previste per eventi del genere s'è sempre e comunque rivelata più onerosa in fase di esecuzione, che in quella previsionale. E da ingegnere progettista, me lo si consenta, non posso che, per esperienza personale e professionale, dar sostegno questa tesi.
Ma proviamo a prescindere anche da ciò. E torniamo a bomba all'incipit di queste riflessioni: l'unico modo per andare all-in, e dar quindi modo alle circostanze di giustificare le All-In-piadi, sarebbe quello di essere nelle condizioni di farlo, e di averne un tornaconto proporzionale a ciò che si mette nel piatto. Il tornaconto, per parole stesse di Alemanno, non ci sarebbe. O quantomeno, anche nella migliore delle ipotesi, non sarebbe tale da legittimare un investimento così pericoloso.
Di pericolo, difatti, si tratta. E ci riallacciamo qui alla prima condizione: serve essere, sempre e comunque, nelle condizioni di rischiare. E questo Paese - e lo diciamo con triste, ma razionale umiltà, e senza alcun campanilismo - non è, oggi, e non lo sarà nei prossimi anni, in condizione di andare all-in.
Non lo consentono le infrastrutture, e la mentalità con cui troppo spesso si sono bruciati fiumi di denaro pubblico, in occasione di eventi planetari della stessa portata di quello Olimpico. Basti solo rammentare delle decine di mostri di cemento armato abbandonati a loro stessi, costruiti (e mai portati a termine) in previsione dei Mondiali di calcio di oltre un ventennio fa.
Non lo sopporterebbero i trasporti. La rete ferroviaria ed autostradale italica è obsoleta e di certo non migliorabile nell'arco di soli sette anni (l'assegnazione definitiva verrà in effetti presa a fine 2013), coniderate le attuali condizioni di alcune sue ramificazioni, e nella fattispecie quelle meridionali. Quella aerea, poi, è già ad oggi sostanzialmente satura, e le precarietà dello status della compagnia di bandiera certo non rincuorerebbero alcuno, se non gli stolti.
Non sussistono, e non sussisteranno - ed è qui il centro del discorso - almeno per il prossimo lustro, habitat economici e finanziari dignitosi e meritevoli. Ed i dati non stiamo certo qui a riportarli: i ristoranti saranno pure pieni, come amava ripeterci un illustre, discusso, e discutibile predecessore dell'attuale Premier, ma ciò a cui questo Paese s'è esposto, non più di qualche mese fa, è un baratro profondo e da cui non si torna indietro. Ma non siamo noi nè economisti, nè filantropi, nè ingenui: e nell'appoggiare la sapida decisione del Capo del Governo, ci appelliamo alla smisurata fiducia che riponiamo nelle doti del suo entouràge. Anche perchè, da buoni cittadini, non dovremmo fare altro, e destinare ogni scelta non alla nostra portata a persone che, oltre che a valutare la piacevolezza d'un esperienza sportiva, ma soprattutto umana, così rigogliosa, sanno anche, con la loro competenza e dedizione, affiancare ai pro i contro, e decretare o meno l'avvio d'un progetto così splendido in base a ciò che ritengono più opportuno.
Non ce ne vogliano le decine di protagonisti del mondo che così tanto veneriamo, che hanno saputo organizzare, oltre che sottoscrivere, un movimento (quello del comitato promotore Olimpico) assolutamente rispettabile ed apprezzabile al tempo stesso, perchè sospinto da una dedizione altrettanto dignitosa. Ma coloro i quali si sono resi protagonisti d'un gesto spontaneo così promiscuo ai valori dello sport, avrebbero dovuto anzitutto porsi le domande che ci (e vi) stiamo ponendo noi. Perchè, nella nostra cinica ed ingenua ignoranza in materia, dubitiamo che uno qualunque di quegli sportivi abbia mai riflettuto sulla dignità degli impianti sportivi degli anni '90, per i quali sono stati buttati al vento (anche) i soldi dei loro genitori, e da parte degli stessi protagonisti odierni dell'organizzazione (Pescante, Carraro e Montezemolo, per citarne alcuni).
Nè si porranno mai il problema di dover arrivar tardi all'evento, se dovessero trovare, come noi comuni mortali, l'autostrada A3 intasata, o peggio ancora chiusa per lavori in corso. Nè tantomeno sarebbero corsi a strapparsi le vesti in pubblico, o avrebbero scritto altre lettere alle Istituzioni, se la benzina fosse aumentata ancora, per foraggiare gli investimenti futuri legati all'organizzazione del proscenio dello sport. O se, come previsto da alcuni piani di project financing, le spese pubbliche per Roma 2020 avessero implicato riduzioni della spesa in altri settori, che, come sempre, sarebbero stati quelle meno efficienti in termini di moltiplicatore del reddito, alias i servizi ai cittadini.
Questo Paese, così foriero di splendore culturale ed economico, in passato, adesso non ha certo bisogno di correre il rischio d'una nuova Atene. Non solo quella tragica dei giorni d'oggi: perchè, forse è giusto quantomeno ricordarlo, la tragedia greca ha anche dei padri nel disastro finanziaro di quelle Olimpiadi di otto anni fa. Tante medaglie, nuova ed adorabile linfa allo sport universale, ed un buco da quasi 20 miliardi di euro. Ma senza voler mettere sul piatto della discussione tremebondi scenari, e senza allontanarcisi troppo dal Belpaese, è quantomeno doveroso porre all'attenzione il caso della stessa organizzazione capitolina dei Mondiali di Nuoto del 2009, chiusisi con un debito certificato di 'soli' 18 milioni, con la chicca che risponde al nome della Città dello Sport di Tor Vergata: un colosso dal costo iniziale previsto di 60 milioni, per il quale in realtà ne sono già stati spesi 200, e che, non ancora ultimata, sarebbe dovuta esser assestata, in tempo per la fu Roma 2020, con la modica cifra di altri 500 milioni.
Le candide cifre, però, ça va sans dire, lasciano il tempo che trovano. Ciò che dovrebbe far riflettere coloro che si sentono delusi, e financo ammorbati nell'intimo dalla decisione del nostro governo, è appunto un'opinione spassionata e concettuale di ciò che avrebbe potuto essere, e non sarà, nel bene e nel male. L'urlo incontenibile legato ad un'emozione sportiva macroscopica, come può essere quella Olimpica, è piacevole e rinfrancante. Ma non serve, se non in parte, a lenire le ferite insanabili d'una quotidianità sociale gelida e distaccata, come quella dei giorni d'oggi.
Ed al tavolo da poker più caro della storia di questo gioco, adesso, è giusto che restino solo le altre cinque pretendenti alla corona di vincitore del torneo: Madrid, Tokyo, Istanbul, Doha e Baku. Roma, com'era giusto che fosse, s'è tirata fuori.
Ha pensato, per un attimo, di andare all-in, e poi, dopo un'acuta e lungimirante riflessione, ha deciso di foldare la mano.
Le All-In-piadi, per il momento, sono solo rimandate.
Come insegna la regola fondamentale del texas hold'em, d'altra parte, bisogna avere pazienza, e tanta, per essere un buon giocatore. Non farsi mai governare dall'istinto e dalla fretta, per quanto possano essere piacevoli consigliere.
E scegliere sempre il momento migliore per puntare tutto. A meno che, sulla propria board degli schermi TV, non si voglia anzitempo raccogliere la truce etichetta di 'Busted'. E noi, questo, proprio non ce lo possiamo permettere.
Alfredo De Vuono