Più di tre anni fa, esattamente l’11 luglio del 2016, su La pressa di Hanta usciva un articolo in cui si rifletteva sull’ipotesi, in parte fondata sull’atteggiamento e sulle decisioni di allora della società e in parte su una provocazione, secondo cui la SSC Napoli non volesse fidelizzare la tifoseria attraverso una grande campagna abbonamenti, ma tramite la vendita delle singole partite, intese, sempre restando in un margine anche provocatorio, come degli eventi e non percepite secondo la passione che contraddistingue il profondo attaccamento al calcio da parte del tifoso.

Questa visione delle cose, in quel frangente determinata da fattori differenti da quelli attuali, oggi, col dovere di recuperarla e di rivederla con la dovuta onestà intellettuale davanti a un parziale cambiamento dello stato dei fatti, non può più essere sostenuta con convinzione. Anzi, sarebbe più serio non escludere di capovolgerla. E, con buona pace degli escludibili, stavolta col vento a favore della dirigenza partenopea.

Tuttavia, proviamo a soffermarci sull’argomento ripartendo dalla dichiarazione di De Laurentiis che in quel vecchio articolo aveva fatto da introduzione. Un’introduzione valsa quasi come premessa generale in un sillogismo tanto soggettivo quanto mutevole. E, adesso, sia pur partendo da quella stessa dichiarazione, penso sia giusto invertirne la polarità. Sempre in nome del tentativo di guardare le cose con lo sguardo più sereno e onesto possibile. Nel 2011 il patron del Napoli aveva dichiarato: “Non vorrei farla, dico ai nostri tifosi di venirci a vedere partita dopo partita”, poi, “Prima proverò a capire quanta gente è intenzionata a sottoscrivere la tessera. Ma ho l'impressione che i napoletani non siano molto interessati. I risultati al botteghino, nelle scorse stagioni, sono stati davvero minimi. Vuol dire che c'è qualcosa che non va”.

Se una tifoseria come quella napoletana fa registrare un’adesione così bassa alla campagna abbonamenti nonostante questi siano stati messi in vendita con prezzi molto accessibili rispetto alle medie di mercato (i prezzi più bassi degli ultimi nove anni e, in proporzione, tra i più bassi di sempre), allora c’è qualcosa che non va. Se è così, quello che non va non deve di certo essere addebitato esclusivamente alla tifoseria, alla società o a un singolo aspetto. Forse, qualcosa è cambiato. Difficile definire con certezza cosa abbia cambiato lo stato delle cose. Sospendendo la ragion di possibilità economiche (non si entra nelle tasche delle persone, ci mancherebbe), restano elementi evidenti e altri più nascosti. La calendarizzazione che sparge in tutti i giorni della settimana le partite di campionato? Il calcio in tv? La lamentata scomodità per raggiungere l’impianto di Fuorigrotta? Alcuni di questi aspetti ci sono sempre stati, come altri, a dire il vero, altrove non vengono presi in considerazione. La pay tv arriva anche a Milano e a Torino, per esempio, dove, diversamente, gli abbonamenti fanno molta più presa sulle rispettive tifoserie. 

Poco conta, però, ricercare in maniera ossessiva quello che probabilmente sembra nascondersi, ma che in realtà potrebbe essere più evidente di quanto sembri. Si è venuto a creare un inconscio in stato confusionale, che pare avere male assorbito aspettative alterate che non sono chiare nemmeno a chi dovrebbe serbarle, che proviene da questa continua a spasmodica richiesta di investimenti sul mercato per portare chissà quali e quanti calciatori, un’incontentabilità accecante davanti al rispetto che questo Napoli meriterebbe. Tutto questo, allora, si sistema benissimo tra le comodità e i favori di quel calcio televisivo che, a detta di molti, deromanticizza il pallone, ma poi, sotto sotto, fa comodo quasi a tutti. Forse pure questo ha ridotto la libido futbolista corrodendo pure la partecipazione e la fidelizzazione (volendo usare un termine più caro agli aziendalisti) di grandi tifoserie.

Di recente, complice le avvenute Universiadi che hanno restituito il San Paolo rinnovato secondo un’estetica anche più identitaria e la campagna abbonamenti in grande offerta, qualche passo non da poco è stato compiuto in direzione della tifoseria. Ci si sarebbe aspettato anche il contrario. Adesso quella dichiarazione del 2011 di De Laurentiis assume un significato probabilmente più ampio: “Vuol dire che c'è qualcosa che non va”.

De Laurentiis non vende una passione, ma eventi? No, dirlo adesso sarebbe sbagliato. Ora questa provocazione avrebbe dell’ingiusto. E giusto è rivederla. Adesso, alla luce di una condizione ambientale (tra i dati e il percepito) strana, sia ha la sensazione che sia una parte del tifo napoletano a mostrare una passione che avvisa di un’interpretazione d’occasione, a seconda dei frangenti e non delle possibilità. Un vediamo prima che cosa succede. Una tensione che tende a diventare definizione di una passione, appunto, di consumo. 

P.S.

Breve evasione intorno alla polemica sui ritardi dei lavori degli spogliatoi. Inutile rischiare la solita retorica. Viene da ricordare, a proposito di calcio e di allenatori, un’intervista a Rafa Benitez, un mister che, sia pur con forme differenti, ha anticipato i codici carismatici di Carlo Ancelotti. In questa intervista, rilasciata al Corriere della Sera, il tecnico spagnolo, parlando della città di Napoli disse: “I napoletani devono capire che la bellezza è qua”. Chi vuol capire capisce. Ancora oggi.