Quando è arrivato, qualcuno ha storto il naso. Non era facile affrontare l’ombra sopra gli entusiasmi dopo la famosa partita col Verona. Non era facile entrare dentro lo spogliatoio post ammutinamento, con ancora la fronda sorridente a fare da affannato e logorato contraltare solo apparentemente felice all’orco società che per tanti tifosi aveva avviato lo sciupo di tutto quanto di buono fatto in precedenza.

Non era facile costruire il saluto di uno come Mertens, non era facile transitare sopra il vero, grande, sostanziale cambiamento che, nella diffidenza generale, De Laurentiis stava curando nel bel mezzo dell’incuria di un sentimento ormai privo di fiducia, persino in se stesso.
Non era facile prendere una squadra delusa e afflitta, rielaborandola, portandole idee nuove, donandole un senso di duttilità, sradicando vecchie ideologie tattiche e sturando tappi tattici ormai consolidati in un luogo a procedere coperto di bandiera e sentimento.

Non era facile “accontentarsi” di una qualificazione in Champions nel primo anno, inaspettatamente ma scientificamente propedeutico a quello trionfale, rilanciando la squadra nella stagione successiva senza più le vecchie bandiere. Non era facile scovare subito i giusti varchi tattici per Kvara, Osimhen, Kim, recuperando calciatori come Meret, Lobotka, Elmas, Politano, Mario Rui, superando persino ipotetiche ruggini personali e anteponendo la sostanza a una forma che avrebbe dovuto darsi da fare sin da subito per seguire l’umiltà della prima.

Non era facile lavorare su una Napoli drammaticamente ancorata a un passato che si pensava irripetibile. Non era facile resistere alle pressioni subdole e superficiali di una stampa col cappio pronto e il luogo comune a portata di mano. Non era facile superare l’attesa della caduta prima ancora della caduta stessa. Non era facile tirare fuori tutto il meglio da un gruppo che si è rivelato naturalmente predisposto a cercarlo, quel meglio che tante, troppe volte, alcuni allenatori avevano preteso senza comprendere realmente come e dove andare a cercarlo.

Non era facile sorvolare le chiacchiere sui fatturati e il potere politico, non era facile concentrarsi soltanto sul patrimonio e sulle energie di una squadra dando vita alla più grande magia del dopo Maradona. Non era facile portare sulle pettorine la frase “Abbiamo un sogno nel cuore”. Non era facile lanciare in faccia alle televisioni quanto in Italia la parola Napoli risulti scomoda e avversata fino al razzismo. Non era facile farlo partendo prima di tutto dalle sgradevolezze di casa propria. Non era facile assumersi una responsabilità. Una volta tanto parlando di calcio, solo di calcio. Argomentando con dovizia di particolari durante le conferenze stampa e stilettando solo quando c’è stato davvero da stilettare.

Non era facile scegliere il momento giusto, farne un’arte, una pedagogia per sé e per chi gli è stato intorno. Non era facile escogitare così tante idee da concretizzare sopra il terreno di gioco. Non era facile riuscire a fare l’allenatore nel senso più profondo e intelligente della parola. Non era facile essere Luciano Spalletti. Sfidare se stessi senza sfidare gli altri. Per batterli tutti e, finalmente, sorridere di rimando ai veleni altrui, godendosi la felicità di un luogo che non aspettava altro che qualcuno comprendesse che per vincere a Napoli occorrono due cose: la capacità e l’incoscienza lucidissima dell’imperturbabilità. Non deve essere stato facile essere il Napoli di Luciano Spalletti e Luciano Spalletti. Luciano Spalletti ci è riuscito.