Se l’Italia piange, l’Europa non ride. Se in questi anni di Var se ne sono comunque viste di cotte e di crude, anche in Europa, fino alla competizione principe per squadre di club, il rendimento degli arbitri dice che di questo calcio non ci si può fidare. Del resto, resta sempre tutto trincerato dietro la solita retorica dei propri errori e delle proprie responsabilità, dei tanto sono più bravi gli altri e noi siamo inferiori. Però, pure i grandi li vedi piangere e strepitare quando a subire torti gravissimi sono loro. E li vedi altrettanto sconfitti davanti al fatto che in certe competizioni, a certi livelli, un orrore arbitrale, ancora più orrore se non soccorso a dovere dallo strumento del var, interviene a scompensare gli equilibri della partita e del risultato. E questa storia va avanti da sempre. Pure col var.

Si può davvero giudicare il calcio in questo modo? Si può veramente pensare che il lavoro che conduce le squadre a certi appuntamenti si possa ancora affidare alla precarietà del giudizio, talvolta delirante e inspiegabile, di chi non c’entra niente col gioco e con quel lavoro? A dispetto del principio che contemplerebbe il giudice di gara come elemento silenzioso e non decisivo. E vale la pena ribadirlo, col var ancora di più. 

Tutto questo non deve distrarre dalle giuste valutazioni di ordine puramente tecnico. Un risultato negativo non può giustificarsi addebitando esclusivamente ad altri le cause di effetti negativi, ma sorvolare sistematicamente su condizionamenti così incisivi, come i gravi errori arbitrali ai quali troppo spesso si assiste (nonostante l’ausilio di una tecnologia che mette a disposizione molti strumenti), significa mortificare la dignità di un senso della competizione sportiva che non si evolve su ragioni e criteri di civiltà, ma continua ad adombrarsi presso zone oscure e poco chiare, servendo la retorica mediatica al servizio di un’epica della grandezza che ha un fondo viziato e pieno di dubbi. 

Pare che a dirselo e a sottolinearlo sia una vergogna, quando, invece, la vergogna è questo calcio che di tanto dispone, ma che di poco approfitta, se non della solita e irritante mania della fiducia in certi poteri decisionali che non possono più vantare una buona fede che un tempo poteva essere tale perché il beneficio del dubbio risiedeva, e non sempre bastava, nella difficoltà di leggere e decidere in frazioni di secondo.

Oggi, non è più così. Adesso, quella frazione di secondo è disponibile a farsi analizzare con tutto il tempo e le angolazioni possibili. L’occhio del giudice gode di uno sviluppo del frangente e di una chiarezza quasi sempre incontestabile. Sono davvero pochi i casi che continuano ad essere di difficile valutazione. La teoria della discrezionalità lascia il tempo che trova. Vale quando si vuole farla valere con protocolli e regolamenti volutamente ambigui. Più di un secolo di storia dovrebbe bastare. Eppure, non basta. Le ragioni? C’è un var delle vicende umane che manda in onda rallenty che fa ancora troppo comodo ignorare.