di Alfredo De Vuono 

 

“Il mio quartiere non era un posto facile. Il calcio mi ha salvato. Se non fosse stato per questo sport meraviglioso sarei potuto diventare un delinquente o sarei potuto finire in galera. Una volta rubai un motorino ad un pony express, ma poi capii che era sbagliato. Provai anche con il rugby, ma la palla ovale non mi attirava come quella rotonda”.

Jeremy Menez, dicembre 2014

 

L'hanno chiamato in tanti modi. 'Mago Houdini', 'FenoMenez', 'Le génie', senza mai perfettamente centrare la questione caratteriale e tecnica. Il punto è che, arrivato alle porte dei 28 anni, Jeremy Menez ora è solo croce e delizia: di chi lo allena, di chi lo tifa, dei suoi compagni e - ultimi, ma non per questo meno importanti - dei suoi fantapresidenti. E dire che a 19 anni, quando ancora calcava i campi di Montbéliard con la maglia del Sochaux, il suo nome (al netto di vezzeggiativi e superficiali pomposità) veniva già associato, e con convinzione, alla lunga lista di prospetti talentuosi da inserire nell'infinito listone dei "...piccoli Zidane crescono". D'altro canto, non poteva essere altrimenti per il più giovane calciatore nella storia della Ligue 1 sia ad aver firmato un contratto da professionista (15 anni), sia a realizzare una tripletta in campionato (gennaio 2005, contro il Bordeaux, in soli 8 minuti). Peccato che il giocattolo si sia rotto molto, molto presto. Notevole nella sua esperienza al Monaco, altalenante in quella capitolina, insufficiente in quella parigina. Poi, questi 7 mesi a Milano che l'hanno definitivamente vestito dell'abito più significativo della sua già abbastanza lunga carriera: ovvero, l'uomo che decide le gare. Nel bene e nel male. 

Che, in funzione del lato del letto da cui fa capolino, alla mattina, si sveglia campione o bidone, trascinatore o brocco, volitivo o svogliato, iperattivo o sonnambulo. E' solo il caso, come nella più insidiosa delle favole, a decidere se quello che Inzaghi (ed i fantallenatori) vedranno in campo, in definitiva, è docteur Jeremy o monsieur Menez. E quello che fa specie è, piuttosto, che probabilmente neanche lui se ne renda conto.

 

Tanto di partita in partita, quanto a partita in corso. Jeremy s'accende a fiammate, come un cannone incandenscente, e poi altrettanto di botto si chiude a riccio, a sparare a salve giocate tanto ridondanti ed egostiche quanto irritanti. Passare la palla, durante queste micro-fasi, se non è esercizio di stile fine a sé stesso è fondamentale ampiamente evasibile, atto solo ad auto-escludersi dalla potenziale metamorfosi che da monsieur Menez gli consentirebbe di tornare ad essere docteur Jeremy. E, come più volte è accaduto in questa stagione, regalare perle di rara unicità stilistica, come la gemma de talon con la quale ha abbattuto, qualche mese fa, un Parma ancora non allo sbando.

La percezione dell'abbandono a fasi alterne, peraltro, non è solo visiva, seppur percettibile anche al meno clinico degli occhi. E' anche statistica: è questo è ciò che lancina più profondamente il cuore di chi, in estate, ne ha acquistato il fanta-cartellino all'asta, magari tra l'indifferenza generale. 

 

Immagine

 

La stessa, indolente indifferenza con la quale il nostro alterna voti al di sopra del 7 a quelli al di sotto del 5. Prestazioni che, al netto dei bonus e malus, possono tanto rivitalizzare, quanto ammorbare, un'intera giornata fantacalcistica. La conclusione? Impossibile da decriptare, proprio come l'umore del ragazzo di Longjumeau. Di cui, nell'estate 2006, un signore 34enne disse: "è giovane, è un po’ come Cassano". Lo stesso signore a cui era stato più volte accostato, in patria, e che pochi giorni prima, durante una partita piuttosto importante, aveva fatto stramazzare a terra un certo Marco Materazzi. In quell'occasione, forse per l'unica volta in carriera, anch'egli assai poco docteur Zizou e molto monsieur Zidane