Non ci crederete, ma se c'è una cosa che a noi giornalisti - almeno quelli ignavi. E sono tanti - non piace, beh, è fare classifiche. Dare pagelle, assegnare i voti. Mettere in fila, dare priorità, spostare le caselle con quell'assolutismo cosmico, a volte semplicemente comico, che espone automaticamente all'opinione. Perché ogni cosa ch'è definitiva, perché algebrica, mette in piazza una presa di posizione a posteriori difficilmente negabile, ed oltre tutto - in quanto opinione - innegabilmente opinabile. A maggior ragione se il tema è l'oppio zuccherino dei popoli: ovvero, il pallone. Perché il calcio non è di chi scrive, né chi legge, né di chi lo gioca. Ma piuttosto di tutti loro in egual misura, con pari diritti e doveri rispetto all'ottava arte, della quale ognuno è dominus a casa sua, dietro la sua tastiera, e dentro il suo regno emozionale.

 

 

Oggi la classifica la faccio io, me ne assumo le reponsabilità e vado controcorrente. Un po' perché la provocazione non mi dispiace; un po' perché gli occhi del bambino che iniziò a interrogarsi sui perché di questo gioco, abitano in un preciso momento che, con oggi, ha molto da spartire. E' il 17 agosto 1995, e in una tetra conferenza stampa appositamente organizzata nella Sala dei Trofei di Via Turati, le parole che tutti s'aspettano ma che nessuno vuole sentire tuonano come tonfi al cuore.

L'annuncio è lapidario. I lineamenti del viso per assurdo distesi come dopo una guerra, ma gli occhi, per quanto possa esser difficile decifrarlo, iniettati di rabbia. Il tono elegante, sobrio, concreto - proprio come lui - e pare esser contenuto in un'aura di nera luce e perfezione cosmica. Perché la perfezione è così. Spesso imperfetta.

"La notizia è breve. Semplicemente ho deciso di smettere di fare il calciatore. Tutto qui".

La carriera di Marco van Basten, in realtà, era già finita molto tempo addietro. Il ritiro, sofferto come non mai, arriva sì a seguito d'una maledettissima e folle serie di infortuni di gioco, ma in realtà dipende da una stronzissima malattia congenita che gli indebolisce fino allo sgretolamento la cartilagine dell'osso della caviglia. Un problema tanto raro quanto incurabile, di cui soffrì sin dai tempi dell' EDO e UVV di Utrecht che da quelli dell'Elinkwijk e dell'Ajax. Le crociate chirurgiche che, per inciso, durano 2 anni e mezzo - tante, specifiche e ben fatte - sono solo la catarsi della sua carriera. Quella dell'attaccante più completo, professionale ed elegante della storia del pallone; il vero filo conduttore tecnico-tattico e stilistico tra un'epoca - gli anni che vanno dai '50 agli '80 - che con quella attuale non ha nulla a che spartire per velocità di gioco e frenesia atletica, ed il calcio moderno. Marco sarebbe stato il migliore in entrambe. E forse non è un caso che il fato l'abbia collocato storicamente proprio lì, a ridosso dell'epopea dei Maradona e dei Baggio, ad obnubilare Pelé per efficacia sottoporta - in proporzione al livello ambientale -, offrendosi oltremodo a Ronaldo, Messi e Cristiano come padre putativo ed ispirazione sportiva. 

 

"Mi viene voglia di piangere, se penso che uno come lui non può giocare più. Se Dio ha deciso che non giocherà più, forse è perchè non vuole che ci siano più gol belli".

DIEGO ARMANDO MARADONA

 

Quando gioca la sua ultima stagione intera non ha ancora compiuto 28 anni. A quell'età, Baggio aveva da poco giocato USA '94, Maradona doveva ancora regalare al Napoli il secondo scudetto e la UEFA, Ronaldo vincere la Champions con il Real. E' un po' come se chiedessimo a Messi di chiudere adesso. Marco ne avrebbe avuti almeno altri 10, davanti, per fisico e coscienza atletica. Ed è per questo che il rimpianto, per intensità e unicità della sua vita, è pari solo al suo valore. 

Fu Maradona a buttare alle ortiche l'ultima parte della sua carriera, non per colpa della sfortuna né tantomeno d'una congiura di chissà chi, contro chissà cosa. 

E se il ginocchio di Roby Baggio - il miglior italiano di sempre e l'unico per il quale il cuore mi si scioglie al solo pensiero - ha sofferto almeno quanto la caviglia di van Basten, è vero anche che, in un modo o nell'altro lui ha avuto la chance di offrirsi ai nostri occhi ed alla storia fino ai 37 anni. Come Pelé, che alla sua ultima stagione in carriera segnò 17 reti nei Cosmos (che ora saranno di Raul, che poesia) e che vinse il suo ultimo Mondiale da trentenne. Marco no. Il cigno dal collo lungo quanto le leve ha salutato tutti in quella calda estate del '95, dinanzi al pubblico del Meazza osannante ma in lacrime, che gli dedicò uno striscione emblematico:  “San Siro senza di te è come un falco senza ali”. Una commozione diffusa e solenne che, per inciso, riuscì a coinvolgere anche l'uomo di ghiaccio Fabio Capello. Lui, in camicia rosa, giacca di renna e pantaloni chieri, provava ad essere il van Basten che quello stesso stadio amava alla follia. Entra, fa provare emozioni uniche, saluta e se ne va. Come sempre. Per sempre.

  

 

"Quando un giocatore smette, diventa sempre migliore. Ma io ho giocato tante brutte partite, e ho ho sbagliato gol clamorosi. Adesso mi dite che sono stato il più grande ma la verità è che ho fatto parte di una squadra imbottita di campioni", dirà, qualche tempo dopo. Con la stessa ammirevole dose d'umiltà servitagli, pochi giorni fa, a salutare per l'ennesima volta. Lo stress gli fa male almeno quanto gli faceva male la caviglia. E tanto basta. Anche a noi, che negli occhi non abbiamo solo quello che di straordinario ebbe modo di mostrare prima del ritiro (che, paradossalmente, esula da questo articolo, ma che potete leggere nel nostro Memento) ma anche quel volo d'angelo paradisiaco del 2009 - 14 anni dopo aver attaccato gli scarpini al chiodo - durante la partita d'addio dell'amico Albertini.

 

 

E' anche per questi dettagli, che Marco fu il migliore di tutti i tempi. Almeno se, questi maledetti tempi, li avesse avuti. Qualcuno o qualcosa glieli ha negati, e tutti coloro che provano ancora amore per questo gioco dovrebbero ancora provare rancore nei loro confronti. Se preferite, della sorte. O, se proprio volete, di Dio. L'unica alternativa - piuttosto allettante, in verità - è restare qui, in ammirazione e conteomplativo silenzio, a chiederci se scrivere che van Basten fu il migliore sia eresia o no. Io dico che anche solo star qui a discuterne aiuta: perché prevede la rievocazione, l'analisi, lo studio ed il ricordo di quanto di più bello il calcio c'abbia mai offerto. Suo, e di tutti gli altri contendenti dello scettro morale più discusso e discutibile d'ogni sport.

E, cosa non trascurabile, solleva dai malanni di questo pallone. Orfano due volte di Marco van Basten. Sarà anche per questo motivo, che oggi fa così schifo.

 

Alfredo De Vuono