Nell’ultimo quarto d’ora di Napoli-Roma è andata in scena una tra le più grandi ultime frazioni di gara della storia del calcio Napoli degli ultimi quarant’anni. Quella che può sembrare un’esagerazione è, invece, la summa di pochi minuti della forza di questa squadra. Un Giano bifronte che ci mette un istante a cambiare volto.

Fino al minuto 75’, quello del pareggio della Roma, il Napoli aveva sofferto l’impostazione tattica dei giallorossi e aveva sfiorato un raddoppio un paio di volte sprecato rischiando di sottoporsi alla più antica delle leggi del calcio, giunta, poi, sistematicamente, a dirottare la partita verso un pareggio che molte squadre e molti allenatori non avrebbero sgradito. Invece perché snaturarsi? Perché rinnegare nel momento più delicato di una delle gare più combattute, fino a questo momento, della stagione, la formula che contraddistingue i partenopei? 

Le dirette inseguitrici, sommate in una lotta per un posto in Champions che non ha ancora rivelato le sue favorite, quasi tutte, dovevano contare su organici migliori, su panchine lunghe, alternative frutto di progetti societari oculati e impeccabili secondo il coro mediatico d’occasione. Il Napoli no. Il Napoli non avrebbe nemmeno potuto competere per arrivare tra le prime quattro. Perché chissà come se ne parlerebbe se Simeone, Elmas, Olivera et cetera vestissero altre maglie.

Dopo l’1-1 della Roma chissà quanti avranno pensato di accontentarsi e chissà quanti sperato che il contraccolpo avrebbe addirittura condotto il Napoli alla sconfitta. Spalletti non è parso dello stesso avviso. L’inserimento di Simeone al posto di Osimhen, con Raspadori a supporto senza la minima intenzione di ripiegare tatticamente, ha colto tutti alla sprovvista. Non per i cambi in sé, ma per la lettura delle cose che compete ai coraggiosi. E non il coraggio del rischio, ma quello sottile dell’intelligenza. 

Molti calciatori della Roma non ne avevano più. L’1-1 era rientrato nella dimensione del desiderio di una squadra che aveva speso tanto, troppo. Un quarto d’ora più recupero nel calcio, in questo calcio, rassomigliano a quella che nel gergo del canottaggio viene chiamata la “terza morte”, quando, di solito negli gli ultimi 250 metri, il serrate fa pesare quintali i remi e lo sforzo muscolare, a causa del ritorno dell’acido lattico, può andare incontro a imprevedibili stati di stress, fino a rischiare di fare scoppiare i canottieri. O, per i più grandi, di metterli in condizione di vincere.

Subito dopo aver messo la palla al centro, il Napoli ha immediatamente imposto il ritmo di palleggio e di spinta utili a riportarlo in vantaggio. Il gol, bellissimo, di Simeone non è stato il risultato dell’invenzione del singolo, ma di una costruzione perpetrata da una forza psicofisica di chi sente e contempla il sentiero della vittoria. A Napoli un tale livello di solidità si era visto soltanto in anni in cui il calcio era sostanzialmente una cosa molto diversa da questo di oggi. 

I cambi di Spalletti e la riattivazione della verve collettiva hanno trasformato in nuovo entusiasmo la “terza morte”. Senza esitazioni, senza lo scomponimento della disperazione. Una squadra rimessasi in moto secondo se stessa nel momento sufficiente per ristabilire un ordine da cui essa stessa, per prima, sente l’assoluta necessità di non allontanarsi. 

L’ultimo quarto d’ora del Napoli ha detto di una squadra che si è data un’inseguitrice immaginaria utile a non farle smarrire il senso della sua corsa. Perché l’ultima morte, quella finale, è ancora lontana, e l’unica maniera di tenersi pronti è portarsela dietro di momento in momento.