Chi ha vissuto quegli anni lo ricorderà, quando la stagione 1990-91 pose fine alle gioie di Parthenope. Napoli aveva avuto cinque anni di grazia, tagliando traguardi fino a quel momento quasi insperati. Dopo il successo del secondo scudetto e quello in Supercoppa italiana, settembre salutò l’estate del mondiale in cui qualcosa si era già vendicato contro il Maradona oppositore e, dopo una stagione tormentata e ricca di avvenimenti, avviò la fine dell’era Ferlaino. Napoli, addolorata da un addio in forma di tormento, avrebbe conosciuto più di vent’anni di delusioni calcistiche che avrebbero rielaborato nuovamente il sentimento popolare di una tifoseria divisa tra i traumi felici di un tempo irripetibile e una realtà sconfortata da un divario con le grandi ritenuto incolmabile.

Quell’annata maledetta è stato il primo pensiero di molti dei tifosi che quest’anno hanno avuto la possibilità di rivivere la gioia dello scudetto. Soprattutto chi, come allora, ha fatto i conti con gli effetti della felicità. Uno stato d’animo che da certe parti a causa del pallone si dilata durando più dell’istante fugace in cui se ne percepisce l’ebbrezza. Uscirne diventa difficile, dimenticarla impossibile. Queste settimane di difficoltà della squadra, di polemiche e scarsi risultati, di controversie con alcuni calciatori e il malcontento generale sull’allenatore hanno fatto pensare al ritorno di certi fantasmi. 

Altri tempi, però. E, soprattutto, un altro Napoli. Quello di adesso, per certi versi, più forte di quello. Quegli anni contemplarono una storia triste e drammatica. Soprattutto per le difficoltà personali di un uomo afflitto dal suo stesso prodigio. La fatica fisica ed esistenziale di una persona che aveva iniziato a fare i conti con tutto quanto aveva cercato di esorcizzare attraverso la sua gloria assoluta e irripetibile. Maradona pianse la sua ingiusta condanna e Napoli pianse lui. Per una squadra troppo legata al suo valore e per una società che aveva puntato tutto su di lui fu inevitabile lo sgretolamento. Una seconda dissoluzione colpì la parte del Mediterraneo che a lungo si era opposta al potere calcistico del nord. Ma quelle faccende erano grandi, più grandi dei suoi stessi protagonisti. Probabilmente nessuno avrebbe potuto fronteggiarle.

Settembre 2023 sembrava essersi presentato alla stessa maniera. Il Napoli aveva dato la sensazione di aver aperto il baratro della delusione che, paradossalmente, come 33 anni fa avrebbe avuto un sapore analogo. Non tanto per una vittoria mancata, ma per aver costretto i suoi tifosi ad assistere a una metamorfosi così imprevedibile, sorprendente, viste le premesse. Invece, pare, con le dovute prudenze del caso, sia bastata una notte per restituirsi a quell’entusiasmo che è la grande forza di un gruppo che, a dispetto di saggisti del pallone, desidera prima di tutto divertirsi. Nell’affermazione individuale e collettiva, prima di tutto divertirsi. 

Lo sanno bene quelli che hanno capito dallo scorso anno che cosa è venuto a crearsi in una piazza dove è così difficile conservare qualcosa. Il Napoli si è difeso. Pure da se stesso. Lo sta facendo dialogando al suo interno, per una terapia autoimmune in cui sono tutti chiamati a fornire una reazione, dall’allenatore ai calciatori. La dilatazione tattica che per alcune partite era diventato un campanello d’allarme, il rendimento incostante di alcuni calciatori fondamentali nell’impianto di gioco, l’evidente disorientamento di Garcia in alcuni frangenti e il silenzio della società sembravano aver cancellato il Napoli dal Napoli. Poi, da quel tweet “Ripartiamo da Bologna. Bravi tutti” qualcosa è cambiato. Sono già in azione ipotesi e interpretazioni, alcune allusive, altre consequenziali. Ma poco importa, perché la lezione numero uno sta arrivando da quelli che vanno in campo.

Alla stampa in malafede, anche di marchio locale, agli osservatori più maliziosi e a chi non vedeva l’ora di relegare il Napoli fuori dalle possibilità di competizione. Tutto in dedica a chi marcia sui richiami velenosi della parola che sul web imprime e scompare presto, che vigliaccamente colpisce e nasconde la mano velandosi tra le sue variazioni sul tema, con i suoi hashtag e i suoi sensazionalismi. Nella gara con l’Udinese è andata in scena la serietà della fedeltà a se stessi. Nessuno può sapere se durerà e se domani sarà ancora meglio. L’unica certezza è che nessuno di quei calciatori ha vissuto quell’annata maledetta. Nessuno di loro, probabilmente, ne conoscerà la storia nei dettagli.

Eppure, senza saperlo, non si può negare che stiano facendo il possibile per scongiurarla. Perché, al di là dei tanti giochi delle parti che ormai sono nella struttura mentale e spirituale di questo calcio, uno dei meriti del Napoli dall’anno scorso e, sembra, di quest’anno, sia quello di proteggere la sua fierezza. Divertirsi. Come comandavano i grandi allenatori di una volta. Come forse si può fare ancora per risparmiare ai tifosi qualcosa che non meritano di rivivere.