Un giorno i calciatori scenderanno in campo in doppiopetto. Chissà, invece indosseranno una di quelle tute bioniche tutt’uno con scarpini e scia atomica per ogni azione. Mentre il tempo prepara i suoi guardaroba del futuro, pare che Arlecchino si sia impadronito del calcio italiano. Se poi il suo dominio si stia estendendo oltre i confini peninsulari, questo è un dato ancora incerto.

 

Ormai di domenica e nei giorni annessi, negli infrasettimanali di coppe e ovunque rimbalzi un pallone per ragioni ufficiali, non si vedono che la Roma in bianco (tralasciamo ironie da latin lover), oppure in nero (tralasciamo quelle politiche, soprattutto quelle, che di questi tempi sono tornati di moda i topici degli abiti scuri), l’Inter in gessato votato all’azzurrino, oppure azzurrino e basta, il Napoli in jeans, ogni tanto in giallo canarino, forse a rievocare i vecchi colori dello stemma dei suoi primi anni di storia (molto primi), raramente in bianco, e raramente nel suo azzurro, forse perché passato all’Inter. Ormai non si vede che la Juventus in verde, in blu, una volta in rosa, o in nero (anche qui meglio evitare battute che invochino la prima persona plurale), ma sempre più di rado nel suo bianconero che di questi tempi farebbe un po’ vintage, ma che, in fondo, col suo rigato vecchia maniera (quante squadre hanno le maglie a strisce) riassume un secolo di pallone italiano battuto e ribattuto.

 

Non si vedono che il Parma in maglie sempre più osé (il porno non c’entra), il Chievo sembra abbia smesso (a Verona qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo), il Toro che non è più granata di grinta tutta torinese e che invece sembra si stia votando spesso a celestini postmoderni e a pallori biancastri che non si addicono alla sua storia di glorie e di furori. Non si vedono che la Lazio vestita da Torino, ogni tanto, il Verona in stile Real Madrid, il Cesena in rosa (lì però c’è una ragione che non può essere contestata) e il meglio deve ancora venire, vista questa necessità affezione di accordare i gusti e le tendenze del merchandising.

 

Per non parlare di certe divise di altri campionati, che dei colori sociali se ne infischiano, senza considerare le camicie tendina (o anche tovaglia per il pranzo o per il picnic, fate voi) degli arbitri nelle partite internazionali. E pensare che tanti anni fa i direttori di gara andavano in campo in camicia e giacca. Non a caso si chiamavano giacchette nere. Per farla breve, è vero che il calcio ormai sa che deve adattarsi alle regole della economia pallonara, del giro di affari, dei marchi e delle vendite a tutto spiano. Una sola richiesta: qualcuno chiami lo stilista per chiedergli di essere un po’ più clemente, perché pare che la domenica (una parola che non vale più) qualcuno si confonda e faccia il tifo per la squadra avversaria. Sembra ieri che i pittori francesi affrontarono impavidi gli accostamenti vietati. 

 

Carlo Bini ha scritto che la vita deve essere una tavolozza piena di colori, un sabato dove ballano tutte le streghe. Il calcio somiglia a tutto questo, e proprio Bini ha aggiunto che tutti hanno diritto a un biglietto d’ingresso per questo festino. Ovvio, viene da aggiungere, ma che avvenga senza sollecitare troppo le nostalgie. La passione per il calcio è l’unica cosa che fa vestire tutti uguali senza che nessuno ne sia dispiaciuto. 

 

 

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka