Se gli esoneri da Milano e da Madrid siano avvenuti in circostanze dettate più da dinamiche interpersonali e relazionali, diciamo diplomatiche, più che da fattori tecnici, se a Napoli le sue idee non hanno trovato terreno fertile con una società non ancora pronta per certe programmazioni, se a Londra, con un Chelsea rilevato sull’orlo del baratro, ha avuto appena il tempo di risollevare la classifica, prima di lui molto deficitaria, facendo risalire la squadra al terzo posto e conquistando una difficile qualificazione in Champions e consentendole di vincere l’unica Europa League (vecchia Coppa UEFA) della storia del club (facendo i conti personalmente con i malumori dei tifosi londinesi nonostante i sei mesi di risalita in classifica e il successo in Europa League), molte di queste storie, sul conto di Rafa Benitez, sono state raccontate spesso in una certa maniera.

Eppure, a Milano aveva comunque superato il girone di Champions, mentre l’andamento in campionato, dato che non sempre si era evinto dalle accuse della critica, era stato anche determinato da una lunga serie di infortuni e da una fase di rielaborazione che invece qualcuno aveva preteso come di continuità. Gli anni successivi, poi, hanno dimostrato che quella pretesa continuità non era possibile. A Madrid, poi, per cui la cavalleria del ciclostile di certa stampa italiana aveva diffuso titoli e articoli di sberleffo a un esonero a tratti inspiegabile, visto il primo posto nel girone di Champions (a danno del PSG) e la piena corsa al titolo in Liga, la “cacciata” dal regno dei blancos ha assunto più i contorni di un ammutinamento (resta il dubbio che sia accaduto anche a Milano con l’Inter, per ragioni diverse) pilotato da Florentino Perez.

Quando Benitez è approdato al Newcastle, dopo la retrocessione degli inglesi, in un’annata compromessa già prima del suo arrivo, gli stessi giornali che altro non avevano aspettato che il suo esonero da Madrid, gli avevano attribuito anche il flop allo United bianconero, ignorando, in assoluta malafede, i miglioramenti del Newcastle nelle partite sotto la sua gestione e le critiche della stampa inglese alla scelta della società di averlo chiamato così tardi. Senza contare la richiesta dei tifosi del Newcastle di restare a guidare la squadra per tornare subito in Premier, compito portato a termine con successo da Benitez rimasto nella città che un tempo era dei celebri cantieri navali d’oltre manica.

A Napoli, poi, per due anni è andata in scena una continua quanto accanita caccia alle responsabilità del tecnico per ogni cosa. In barba ai calciatori di calibro condotti all’ombra del Vesuvio, ai due trofei conquistati in dodici mesi, da qualcuno, tra una parte dei tifosi e dell’opinionismo appartenente alla stessa cavalleria di cui sopra, anche disprezzati. Il Benitez responsabile e irresponsabile di tutto, nonostante limiti di organico non imputabili alla sua venuta. Fa comodo ricordare sempre le stesse storielle. Il rendimento di Hamsik, di Insigne e tutta una serie di “fazionerie” degne di questo calcio raccontato e commentato soltanto con intento denigratorio. Hamsik? Può darsi che lo slovacco non abbia avuto col tecnico spagnolo un rapporto idilliaco, ma resta che con lui, nella seconda annata il 17 del Napoli ha realizzato il record stagionale di segnature in maglia azzurra, al netto del futuro, ovviamente. E che nella stagione precedente, in cui l’inizio era stato tra i migliori mai visti da quando Hamsik è a Napoli, il capitano azzurro aveva visto comprometterne il prosieguo non per ragioni tattiche, ma per le conseguenze di un brutto infortunio che lo aveva tenuto a lungo lontano dal campo. 

Insigne? Qualcuno provi a chiedere a Maurizio Sarri chi è stato il primo a pensare Lorenzo "il magnifico" in una determinata posizione e secondo determinate indicazioni tattiche. Del resto, lo stesso Insigne, parlando dell'allenatore madrileno, lo ha più volte dichiarato. E si potrebbe continuare, rispetto a come il Napoli nella seconda annata dello spagnolo ha dovuto rinunciare a tre finali, Europa League, Coppa Italia e conseguente Supercoppa italiana garantita a prescindere dall’esito della finale, a causa di due goal in netto fuorigioco nelle rispettive semifinali e da un doppio arbitraggio col Dnipro che a suo tempo ha scatenato non poche polemiche. E non si potrebbe continuare soltanto con questo, ivi compreso che parliamo di un allenatore che, con un organico oggettivamente incompleto in due reparti su tre, per due stagioni ha fatto arrivare il Napoli fino in fondo in più competizioni, addirittura, nella seconda, la più tormentata, facendogli giocare quasi lo stesso numero di partite disputate dalla Juventus finalista di Champions e di ogni altra cosa, tenendole testa e battendola, in Italia l’unico a riuscirci, in quella di Supercoppa. Ancora oggi, invece, c’è chi non perde occasione per parlarne male, soprattutto nella stampa che in passato non ha disdegnato nemmeno il cattivo gusto per criticarlo.

Adesso, dopo la promozione in Premier conquistata col Newcastle, sono riapparsi articoli con le sue provocazioni (recenti e non), le sue dichiarazioni tipiche di chi non le manda a dire (paradossalmente quasi con intento “riabilitativo”), ma con l’abilità dialettica che colpisce senza offendere e senza cadere nell’insulto gratuito. Parliamo di uno che con poche parole e con segnali netti e concisi ha dipinto benissimo il calcio italiano. E non gli si può dare torto. Qualcuno che non conosce bene tutte le lingue e allora, come avviene per chi non parla soltanto la propria, si esprime in maniera troppo netta e diretta? No, forse qualcuno che invece impara presto a conoscere tutti gli ambienti. E questo, in un modo o nell’altro, a qualcun altro dà e darà sempre molto fastidio.

Rafa Benitez, quello secondo il quale "Il calcio è un'esperienza psicologica collettiva" (definizione acuta quanto veritiera), che probabilmente avrà commesso e commetterà i suoi errori, che avrà la sua personalità ingombrante, egocentrica, che terrà alla sua vanità, che in qualche frangente non ha perso occasione per pungere senza troppi complimenti, è però uno dei pochi Don Chisciotte del calcio attuale in grado di potersi esprimere liberamente. Un Don Chisciotte a suo modo vincente, perché sempre se stesso, come quegli "antipatici" che puoi provocare, puoi colpire, dei quali puoi parlare male, ma che non potrai mai cambiare a immagine e somiglianza di questo perbenismo ipocrita, e che, in un calcio parlato che non conosce le misure del giusto e sa vendere molto bene soltanto quelle dell’ingiusto, quelli come lui sventolano ancora sulle bandiere di tifoserie di club che hanno vinto cinque Coppe dei Campioni, che vengono ringraziati con uno striscione grande quanto una curva, quella del Valencia, da chi veramente sa cosa significa non dimenticare quanto vale la pena d’essere realmente ricordato. 

Insomma, “l’insostenibile leggerezza” di chi scende di categoria e non se ne fa un dramma. Anzi, sa farsi volere bene pure lì. In qualche modo, sollecitare i sentimenti, nel bene e nel male. In quanti, in questo calcio, riescono ancora a farlo?

Getty images, Fantagazzetta

+