Fuori. Irrimediabilmente e definitivamente fuori. È finita sulla spiaggia di Natal l’avventura/disavventura della nazionale in Brasile. Una tragedia, per dirla con i classici: comincia bene, finisce male. Le mani scorticate dagli applausi al bel gioco espresso contro la peggior Inghilterra della storia si sono ritrovate, stupite, sulle nostre facce sconvolte, prima dalla solidità della Costa Rica, e poi dalla pochezza dell’Uruguay. Perché di pochezza si tratta, inutile negarlo: nostra, ma anche loro. Sotto Cavani e Suarez, la squadra di Tabarez non è questo gran che. E se le levi pure il Pistolero, novello antropofago, rimane poco: un poco di cui, sembra, la Colombia potrà fare un sol boccone.

 

Prandelli ha le sue colpe. È stato un ottimo allenatore, e lo sarà ancora; non è stato altrettanto bravo da ct. Ovviamente, succede questo anche perché il nostro calcio è una sottospecie di rudere che vive del riflesso della grandezza passata, e che finora non ha trovato il coraggio di voltare pagina, di fermarsi e dire: ragazzi, così non si va da nessuna parte. Si è dimesso il mister, si è dimesso Abete: è il momento di cambiare registro, di fermarsi, di lavorare con i club sui giovani, di investire in centri federali. Di fare come hanno fatto la Germania prima ed il Belgio poi, ottenendo i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Eppure…

 

Eppure fa un male cane uscire così, uscire adesso. Sinceramente non credo che sarebbe stato possibile arrivare fino in fondo, riuscire nello stesso exploit di otto anni fa: troppo tortuoso il cammino preparato dagli incroci, troppo stanca la nostra nazionale. Ciononostante farsi far fuori ancora una volta da un arbitro, ancora una volta da un Moreno impazzito, non può che lasciare il sangue amaro.

 

Sì, l’ho detto: siamo usciti per colpa dell’arbitro, più che per colpa nostra. Non è una giustificazione, non mi sto arrampicando sugli specchi: credo sinceramente che sia la verità. Perché, come dicevo, l’Italia di Prandelli era poca cosa, ma l’Uruguay, se possibile, è meno cosa. Non intervengo sull’espulsione di Marchisio (che, disumanizzando il regolamento, poteva pure starci) e nemmeno su una conduzione di gara molto-più-che-discutibile: l’ago della bilancia è stato violentemente spostato dall’ormai celebre morso di Suarez. Espulso il giocatore del Liverpool, in dieci contro dieci, sarebbe stata un’altra partita. Anche a livello mentale. Ed il pareggio, a mio avviso, si sarebbe raggiunto senza troppi patemi d’animo. 

 

Con i se e con i ma non si fa la storia, recita un vecchio adagio: figuriamoci una qualificazione agli ottavi. Ma il maleficio del dubbio rimane, e rimarrà negli anni a venire. Se non ci fosse stato assegnato un arbitro che in patria chiamano El Loco, uno da cui (ci avvertivano) ci si poteva aspettare uno scivolone, forse staremmo parlando di altre cose. Di una partita mediocre ma di un Verratti straordinario, di un Pirlo eterno, e di un Immobile che sì, la prossima dovrebbe giocarla lui, mica Balotelli. Forse staremmo parlando della Colombia, della paura che ne avremmo avuto e del fatto che, forse, saremmo usciti già agli ottavi. Forse staremmo parlando di una qualificazione di cuore, strappata con i denti. Forse non staremmo parlando dei denti di Suarez sulla spalla di Chiellini. Denti che, a meno di scandali, finiranno il mondiale lontani dai campi. Magari impegnati su un piatto di fegato e fave, ed inondati da un buon Chianti.

 

Antonio Cristiano