Si chiamava Oreste Bolmida, e suonava la tromba. Quando il grande Torino, l’inimitabile undici granata che per anni incantò il mondo al punto da attirarsi le invidie degli inglesi, appariva in difficoltà, Oreste tirava fuori la sua tromba e suonava una musica che, come per magia, a Mazzola e compagni restituiva in un attimo tutta la forza smarrita in quei momenti di difficoltà. Grandi rimonte, vittorie insperate, azioni e giocate spettacolari, tutto sotto gli occhi del Bolmida trombettiere, al suono della sua tromba rimasta nella storia, a lungo protagonista di un mistero che un vero granata non ha smesso di tenere sotto il velo lieve e insostenibile della malinconia.
Dopo il gol vittoria nel derby della Mole, Tevez, manco a farlo apposta, ha inscenato un’esultanza assai particolare, facendo il gesto della tromba, per dedicare il gol a un amico in tribuna, e rievocando involontariamente la figura di Bolmida, che al Filadelfia suonava ogni volta la carica per i suoi undici maestri del pallone, artisti di un’orchestra che mai nessuno è riuscito ad eguagliare nella storia del calcio italiano.
Tevez ha suonato la tromba della vittoria della Juventus e sugli spalti qualcun altro ha suonato il solito requiem al buon gusto, tenendo ben stretti i soliti striscioni contro quel ricordo che ogni appassionato di calcio conserva come una reliquia, come la leggenda immortale di una profana santificazione. Stavolta la profanazione è avvenuta davanti al paradosso di un’esultanza tanto particolare quanto involontariamente paradossale, e non per il gesto in sé, che di sicuro ha colorato una partita dove il protagonista non è stato di certo il gioco, ma perché la coincidenza si è consumata sotto gli occhi di qualcuno che pensa al pallone come a un luogo di consumazione, come l’aperitivo domenicale pagato a buon mercato, con la battuta di cattivo gusto stretta fra i denti e un potenziale di frustrazione sulle spalle.
Eppure durano ancora le macerie di quello stadio, il Filadelfia, dove si esibiva la più grande squadra italiana di tutti i tempi, dove suonava Oreste, dove Mazzola, Gallea, Ferraris e tanti altri giocavano il calcio ignari che un giorno avrebbero consegnato al mondo il più struggente degli spartiti. Cosa insegue questo pallone, se non frequenti inviti alla retorica, in mezzo ai quali dove soltanto di rado è possibile scovare avamposti occupati da chi guarda a certe cose col silenzio del rispetto che se manca alle cose serie, figuriamoci al gioco. A chi la leggenda, a chi uno striscione. E nessuno sa a chi tocca decidere le "assegnazioni".
Per un momento viene da immaginare che forse sarebbe stato più bello se Tevez avesse avuto addosso la maglia granata, tanto per dargli del Bolmida. Perché si chiamava così, Oreste Bolmida. Suonava la tromba nel Filadelfia. E oggi, chissà, la suona ancora.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka