Abbiamo detto fine alla carnalità. Che s’accomodi pure con noi, la retorica del passaggio breve e del pensiero che tra noi rimane, consumato ognuno al proprio posto, perché è più comodo così.
 

Ricordo la prima volta in cui ho visto “Sud” di Salvatores. Il film, con Silvio Orlando, che racconta la vicenda di un gruppo di disoccupati che occupano un seggio elettorale in un paesino dell’Italia meridionale, bloccando le operazioni di voto e tenendo in ostaggio una coppia di fidanzati. Tra questi, c’è la figlia di Cannavacciuolo, politico locale colpevole di brogli elettorali provabili grazie a una scheda truccata in possesso proprio dei “rapitori”. Nel corso della storia, l’insediamento maldestro e provvisorio dei protagonisti, commuove l’Italia intera, al punto tale da conquistare la simpatia degli spettatori e il desiderio di emulazione da parte di altri gruppi di contestazione sparsi per la penisola. L’azione fuorilegge dei disoccupati, li condurrà a una lotta estenuante sotto i riflettori di un paese che li spia e li segue seduto in poltrona, contro un potere oscuro che, a tratti, sa pure come servirsene.
 

Mi ricordo di quando andavo a scuola e non potevo votare. Mi ricordo che osservavo gli adulti seguire con interesse le vicende politiche, gli avvenimenti legati alla scelta elettorale, e a tutta una serie di imperfezioni che educavano il voto a un lato grottesco, non immune da mugugni e brontolii, e mi ricordo che si votava in primavera. L’inverno non me lo ricordo come la stagione della politica. La primavera era più accattivante, perché il suo campionario di belle giornate favoriva l’ottimismo di provare a seguirla un’idea, pure in forma di tentativo, o, almeno, qualcosa che le assomigliasse. Le elezioni coincidevano quasi sempre con la Pasqua o con gli ultimi giorni di scuola. Entrambi i periodi, erano favorevoli per starsene ad aspettare i risultati delle partite e delle tornate elettorali col pallone sotto al braccio, e mi ricordo pure che nessuno storceva il naso, perché la curiosità, pure se ridotta ai minimi termini, ce l’avevano tutti, grandi e piccoli.
 

Ah, dimenticavo, stiamo ospitando pure la retorica, quindi, coperti dall’ombra del ridicolo, diciamolo presto presto che sarebbe ancor più retorico, e ancor più ridicolo, fingere quelle pose radical chic secondo le quali le cose cambiano, si trasformano, e non è vero che non perdono d’interesse. Francamente, meno retorico e meglio sarebbe invece dirselo che le cose, cambiate o meno, possono perdere di consistenza. Pure l’alone oscuro e misterioso del complotto secolare diventa più insopportabile. Non è vero che le cose sono cambiate. Sono soltanto peggiorate.
 

Vale la differenza degli occhi di un bambino da quelli di un adulto? Non credo, fino a un certo punto, perché se non ci si rincoglionisce, restano abbastanza dettagli e abbastanza ricordi per il memoriale utile all’inchiesta che dopo qualche decennio arriva indomita e spontanea.
 

Ma adesso è più comodo. Hanno eliminato le imperfezioni, perfezionando lo spettacolo. C’è internet dove si possono seguire gli spogli in tempo reale, ci sono le televisioni che assicureranno tutti i dettagli, ci sono le segreterie che già sanno come andrà a finire, coi piani pronti per ogni evenienza, caso mai le percentuali dovessero rivelare qualche sorpresa. Ci saranno tanti votanti spinti a forza dal ricordo e dall’abitudine.
 

Sarà soltanto frutto della percezione, o la lieve e nostalgica riconduzione a modalità estinte, ma il fervore per quello che un tempo era disputa fondata sull’inganno e sull’ingenuità, adesso s’è ridotto allo stato di sfizio atteso come l’esito di una scommessa. Non è più la stessa cosa, e se cambio di genere doveva esserci, in buona o in mala fede, s’è cambiato nel verso sbagliato.
 

E il bagno di ridicolo continua, riparando nel rifugio romantico dei Silvio Orlando, dei Cannavacciuolo (ahinoi reduci e ancora al loro posto), degli occupanti e degli ostaggi. Per carità, nessuna richiesta di imitazione. E poi, nel film, il gruppo di occupanti guidato da Silvio Orlando, l’azione, la fallisce.
 

Là, dentro un paesino in mezzo al deserto, o nel centro di una metropoli, chissà perché, l’aria sembra la stessa.

 

 

 

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka