di Fortunato Tripodi 

 

 

Questo inizio di stagione 2015/16 ci ha consegnato un Juventus-Milan che, da gara storicamente decisiva per le sorti degli scudetti da assegnarsi, è stata derubricata a sfida fra pretendenti al posto di “prima inseguitrice” delle squadre partite a razzo in questo primo scorcio di campionato. Al di là delle contingenze che hanno determinato questo status-quo, la gara dello Stadium, fra uno sbadiglio e l’altro, ha lasciato nell’aria una strana sensazione: questo Milan di Sinisa Mihajlovic pare terribilmente simile, seppur con minime differenze, a quello del defenestrato Pippo Inzaghi.

 

Arrivato con la nomea di “sergente di ferro”, l’ex trainer della Sampdoria ha, sin da subito, cercato di mantenere attorno a sé un’aura di autonomia rispetto ai diktat presidenziali, ha indicato i calciatori da acquistare, alcuni anche a peso d’oro, non lesinando di lanciare strali nei confronti del suo predecessore (“i ragazzi non erano abituati al lavoro duro”, così recitò Sinisa qualche giorno dopo il suo avvento sulla panchina rossonera) e cercando di ingraziarsi il popolo della Curva con qualche saltello che, ad oggi, lascia il tempo che trova.

Accantonato sin da subito il “blucerchiato” 4-2-3-1, Mihajlovic si è affidato inizialmente ad un più “presidenziale” 4-3-1-2, provando i vari Honda, Bonaventura e persino il desaparecido Suso nel ruolo di ispiratore delle due punte, fra le quali, ben presto, ci si sarebbe attesi di vedere quel Mario Balotelli, ipotizzato addirittura come trequartista dalle parti di Arcore. Risultati e prestazioni non esaltanti, seppur non malvagi, anche considerando il normale lasso di tempo da concedersi a qualsiasi mister insediatosi su una nuova panchina.

 

Tuttavia Mihajlovic decide di esplorare nuove soluzioni: vara un 4-4-2, con l’intenzione di coprire meglio il campo in ampiezza, senza venir meno al dogma delle due punte, mettendo da parte il facitore di gioco fra le linee e rispolverando Montolivo in mezzo al campo. Esperimento prodromico al “nuovo” 4-3-3, che ha poi fruttato le tre vittorie consecutive contro Sassuolo, Chievo e Lazio. Un Milan molto coperto, con il solo Bacca (o Luiz Adriano) ad agire come riferimento centrale in avanti, e Cerci con Bonaventura (o Niang) a ruotargli attorno, partendo dall’esterno.

Quando tutto sembrava volgere verso il sereno, al Meazza arriva l’Atalanta di Edy Reja, di certo uno che non passerà alla storia per il bel calcio proposto dalle compagini da questi allenate, a fare lezione di calcio al cospetto di un Milan atteso alla prova del nove. Tant’è vero che, al di là di quanto reciti il tabellino finale (0-0), lo sportivissimo presidente Berlusconi si sente in dovere di scendere nello spogliatoio degli orobici per complimentarsi con i ragazzi del tecnico friulano. Non proprio un bel segnale per Sinisa.

 

Siamo giunti, quindi, alla gara dello Stadium: un Milan privo di idee e anche della verve propria del tecnico serbo, bravo a fare il compitino in fase difensiva, ma nulla più, va a perdere con una Juventus che, di certo, non ha incantato, per usare un eufemismo.

Bacca è parso troppo isolato, con Niang e Cerci, deputati a rifornirlo ed assisterlo, oltre che a conferire imprevedibilità al gioco del Milan, sfiancati da un lavoro difensivo, sì utile, ma che alla lunga ha finito per mortificare ogni intenzione di manovra offensiva, anche perché la velocità di transizione della sfera dalla difesa al centrocampo e poi sugli esterni, aveva tempi paragonabili a quelli del completamento della Salerno-Reggio Calabria.

 

Mettiamoci pure le distanze siderali fra i reparti, una qualità dei singoli tutt’altro che eccelsa e l’illusione ottica è servita: questo Milan sembra sin troppo simile a quello proposto dal tanto vituperato Pippo Inzaghi, pur con alcune differenze. L’anno passato ci si affidava alla velocità e all’estro di Menez, oggi Bacca reclama rifornimenti che non arrivano, nonostante le velleità simil-iberiche di “fare la partita” manifestate da Sinisa, le stesse ben presto abbandonate da Pippo, per affidarsi ad un più italico contropiede. Va detto, a onor del vero, che questo Milan appare più ordinato ed organizzato in fase difensiva.

 

Una discreta organizzazione difensiva, ieri sera aiutata anche dal turn-over di Allegri, non fa rima, in questo caso, con solidità: perché l’errore del singolo (o di reparto) è sempre dietro l’angolo. Romagnoli è sicuramente un ottimo difensore, soprattutto in relazione alla giovanissima età: tuttavia, pensare che possa essere oggi il leader della retroguardia di una squadra che possa lottare per il vertice è, forse, un azzardo. L’ex Sampdoria avrebbe necessitato di un partner affidabile ed esperto accanto a sé ed invece si ritrova a cambiare compagno ogni domenica. La sua parabola rischia di ricalcare quella di Andrea Ranocchia all’Inter: da enfant-prodige a eterna incompiuta il passo è più breve di quanto potrebbe sembrare, ed i proclami di “nuovo Nesta”, forse, in questo senso non portano affatto bene.  

E non parliamo della qualità degli esterni difensivi e dei centrocampisti chiamati ad impostare la manovra. Se Bacca, centravanti di qualità e di altra categoria rispetto a Pazzini e Destro, incontra le medesime difficoltà dei punteros della stagione passata, qualcosa vorrà pur dire: chi, qualche tempo fa, si è pubblicamente chiesto dove fossero i 90 e passa milioni spesi in estate con l’intento di rafforzare la squadra, forse, dovrebbe domandare a sé stesso come (il) diavolo li ha utilizzati.