Fino a questo momento il merito più grande di questa nazionale è stato quello di ritrovarsi in mezzo a un buio dove molti dei suoi elementi in serie A hanno dovuto cedere il passo a calciatori stranieri.

Tra i primi quindici della classifica marcatori ci sono solo tre italiani: Immobile, Insigne e Quagliarella. Nella classifica assist solo un italiano, Chiesa. Anche le voci statistiche dal punto di vista tattico vedono latitare una buona presenza italiana. Tra i calciatori con la migliore fase di interdizione, comprendendo sia i chilometri percorsi che i palloni recuperati, sono soltanto cinque i calciatori che occupano queste speciali graduatorie. E alcuni di questi non sono stati nemmeno convocati.

Inoltre, considerando il rendimento delle italiane nelle coppe europee (emblematico che la squadra che ha vinto il campionato non sia approdata nemmeno ai sedicesimi di Europa League), il calcio nazionale si è registrato molto indietro rispetto a quello di altri paesi. 

Eppure, l’affanno che già prima della pandemia aveva caratterizzato il calcio italiano nell’ambito dei club ha visto quello della selezione nazionale costruire progressivamente un modello per certi aspetti nuovo, soprattutto sul piano della filosofia tattica. E qui il merito di Roberto Mancini emerge notevolmente. Un calcio più vicino agli statuti attuali, fatti di possesso palla, di palleggio rapido, di manovra più coraggiosa sul piano tecnico. Un calcio che un tempo si sarebbe chiamato all’italiana oggi lascia spazio a norme e a visioni che, sempre un tempo, si sarebbero chiamate moderne.

Una squadra che vince spesso, molto spesso, e che raramente subisce goal, guarda al proprio organico in maniera ampia, scommettendo su elementi provenienti da una scelta obbligatoriamente più ampia. Più club coinvolti (anche quelli cosiddetti piccoli), in una rosa, quella scelta dall’attuale commissario tecnico, di conseguenza più rappresentativa, meno legata a impianti e blocchi storici.

È chiaro che la prova definitiva si avrà dopo gare con avversari più impegnativi, se non addirittura di grande blasone, ma, al di là del livello di squadre affrontate in questo percorso, le intenzioni e i meccanismi appaiono chiari, dotati di un’identità, di una filosofia di gioco. La lezione ai club potrebbe arrivare dalla selezione nazionale, restituendo, così, alla compagine rappresentativa del calcio italiano un ruolo nuovamente di riferimento. 

Questo campionato europeo, forse, vede ancora alcuni giganti dormire. Germania, Francia, Belgio, ancora di più la Spagna non sembrano aver scoperto le carte. Non hanno ancora sfoggiato il loro potenziale. Per alcune potrebbe essere più duro del previsto anche superare il girone stesso. L’Italia, per adesso, ha avuto il merito di saper approfittare di un raggruppamento sulla carta più agevole. Un merito, in fondo, di chi si è appropriato di una personalità.

Qualcuno potrebbe osservare che anche l’Italia di Conte agli europei del 2016 sortì risultati imprevisti alla vigilia, sfiorando la qualificazione alle semifinali per mano della Germania ai calci di rigore, e che quella squadra pure avesse mostrato compattezza e recupero di se stessa. Tuttavia, quella era una nazionale fondata su criteri caratteriali, su un sistema di gioco votato a modelli più tradizionali e, per certi aspetti, prudenti. Questa Italia, invece, si sta fondando su uno sviluppo di gioco più complesso e orientato alla cosiddetta “qualità” (concetto ambiguo nel calcio e in molte altre cose). E qualcuno pensi bene a proseguirlo, al di là di come finirà questo europeo. Del resto, il campionato d'Europa per la nazionale è stato spesso motivo di rilancio. Nel 2012, dopo un mondiale molto deludente, all'europeo gli azzurri giunsero fino alla finale.