“Conte andava assolto. Ai tifosi del Napoli dico una cosa: non ho visto la partita di Pechino, ma me l’hanno raccontata. Sono convinto che il furto l’ho subito io a Londra, non loro in Cina”.

 

Invertiamo in qualche modo dichiarazione e domanda. Più precisamente, mettiamola così. Conte andava condannato. Non ho visto l’incontro di boxe di Londra tra Joshua e Cammarelle, ma me lo hanno raccontato. Sono convinto che il torto lo ha subito non so chi (fate voi), e non il pugile in Inghilterra. Risultato, cosa vuoi che ne sappia io delle more di un processo non ancora concluso? Cosa vuoi che sappia io della lunga storia dei discussi verdetti del pugilato? Soprattutto, con quale azzardo vado a mischiare broccoli e patate? Come dicono gli insegnanti di aritmetica.

 

Lasciano perplessi certe uscite infelici, che non si sa bene se siano determinate da frustrazione o da una qualche premura faziosa. Nascono spontanee una lunga serie di domande. Roba che Antonio Lubrano ci farebbe una trasmissione intera, qualora ci fosse quella voglia di chiedersi se, al di là dei sentimenti “partigiani”, valga ancora la pena di muoversi con delicatezza nel pensiero, senza rumorose e maldestre movenze da elefante in mezzo alla cristalleria. Non è il calcio, sia ben chiaro, la cristalleria. Non è la boxe e non è il ridicolo che si rigenera con disinvoltura. È la semplice logica delle cose, e nemmeno di quelle più complicate.

 

Come funziona l’indignazione? Se uno subisce un torto, ammesso che l’abbia subito, piange, contesta il giudizio e per consolarsi si dà alla censura di una cosa che non ha nemmeno visto? E se si è convinti che un arbitraggio sia stato buono e giusto, allora il giudice è quel losco figuro che è bravo solo quando ti dà ragione?

 

Ricordo di molti aneddoti del passato, di molte prese di posizione sfacciate ed eclatanti, che qualcuno ha pure dimenticato, intento com’era a fare da Catone all’irritabilità altrui. Tutto diventa lagna da piagnisteo quando le lamentele sono conservate sotto spirito di parte. Ho letto di chi ha detto addirittura che i protagonisti della diserzione alla premiazione di Pechino dovrebbero prendere esempio dagli atleti olimpici che, nonostante i torti subiti, sempre presunti, si sono comunque presentati sul podio. A me pare che ci sia una certa differenza. Alle Olimpiadi si è in tanti, e una medaglia è sempre vinta, e mai perduta, considerando pure il divario tra un tipo di giudizio e un altro, a seconda degli sport. Vedi gli atleti che, e hanno sacrosanta ragione, piangono per un bronzo e se lo godono per tutta la vita. In una partita di calcio le squadre sono due, e se arrivi secondo, sei arrivato ultimo. E, in mezzo a tanta “buona educazione”, quanto è fastidioso e maleducato questo sciacallaggio post olimpico che proprio non t’aspetteresti da chi ci butta il sangue in certe discipline così lontane dai capricci di un calcio frivolo ed esasperato.

 

Quanto ci mancheranno queste Olimpiadi, che a volte sembrano buone solo come libretto di istruzioni per il bon ton e come manuale di consultazione per la “buona educazione”. Personalmente non so chi abbia torto e chi ragione, e forse ci sarebbe da discuterne a lungo.

Quello che voglio dire, è che in tutto il marasma delle polemiche, come al solito, la critica è governata dal sentito dire. Si mette tutto dentro, mischiando il sereno e la tempesta, mandando all’aria lo sturm und drang, perché all’assalto sembrano andarci tutti e nessuno. Un giorno anche questo diventerà una disciplina olimpica. È antico come il mondo, l’assalto alla baionetta senza lumi e senza baionetta. Solo che nessuno se ne ancora accorto. Chissà, forse una regola buona per tutti sarebbe la scatola di cartone con su scritto maneggiare con cura, dentro ci sono lamentela e giudizio.

Lo diceva pure Jean Baudrillard, “Un giudizio negativo vi soddisfa ancora più di un elogio, a patto che vi si senta la gelosia”.

 

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka