La mitologia sarrista, con buona pace della Treccani, è nata dopo. Se in corso d’opera l’ex allenatore del Napoli aveva avuto il merito di lasciare un segno indelebile nella storia del club partenopeo, il dopo si è ostinato a scrivere un romanzo che era finito all’indomani della “Presa di Torino”, come amano ricordarla i nostalgici del tecnico toscano. Mentre i grandi meriti, mai abbastanza riconosciuti, di quel gruppo di calciatori che da anni vestono la maglia azzurra con grande dignità hanno proseguito nel percorso tracciato dall’arrivo di Rafa Benitez, una parte del tifo napoletano ha continuato a rovistare nei suoi sentimenti in disordine, dimenticando che l’unica fede possibile dovrebbe essere quella per i propri colori. Fanno bene i calciatori e gli allenatori che restano distanti dai segni identitari e dalle tradizioni, quando sanno che qualcosa potrebbe giungere a non poterli onorare più. E, allora, uno come Maurizio Sarri meglio ricordarlo per quei tre anni trascorsi all’ombra del Vesuvio. Perché il dopo, piaccia o meno, non avrebbe comunque potuto appartenergli più.

Sarri non si è mai promesso al Napoli, ma sempre a se stesso. Con tutto il diritto di chi ha piena facoltà di promettersi a chiunque e a nessuno. Ed è nella sua personalità, nel suo modo di porsi. Il prologo mediatico patetico sulla rivalutazione di un allenatore che non poche volte è stato messo a rosolare sulla griglia perché il suo fuori dalle righe non era come certi protocolli gradiscono non cambierà questo aspetto.

“La professione è un’altra cosa” . È vero. Ed è giusto così. Un allenatore, un calciatore, un dirigente, o chiunque svolga una professione possono di certo avere facoltà di scegliere di lavorare per chi vogliono. Magari questa scelta fosse davvero possibile per tutti. E, per quanto riguarda Sarri, l’arrivo sulla sua nuova panchina non scalfisce questa possibilità. Il calcio ha da tanto tempo scelto la sua strada, spesso costellata da cinismi e razionalità. La regola del profitto e della migliore delle possibilità. E non varrebbe includervi un qualche genere di condizionamento morale, emotivo, identitario o di principio, perché sarebbe come far valere un elemento soggettivo destinato a fare da incongruità in una direzione che deve andare verso un obiettivo preciso. L’affermazione di se stessi e il successo si inseguono quasi sempre mettendosi dalla parte del più forte, del più potente. E questo, con buona grazia dei sognatori d’occasione, di quelli che portano avanti costruzioni altrettanto personali, spacciandole come sentimento collettivo, ma che sono soltanto incrostazioni faziose talvolta anche patetiche e fastidiose, non può che avvalorare la sensazione che nel calcio la smania di successo e di soddisfazione obbedisca a questa legge del più forte. Un addensante che attrae verso chi detiene più potere e possibilità di successo.

Ed è una condizione, ormai, che si allinea con precisione desolante a tutta la dialettica e all’atteggiamento che ruotano intorno al pallone. Sono state svuotate le parole più belle. I significati più profondi, persino quelli vicini a forme utopiche, sono stati resi momentanei, poco credibili. Il diritto all’affermazione personale e la corsa a schierarsi col più forte hanno relegato l’impresa a un tentativo, talvolta come trampolino di lancio per vendersi al miglior offerente. L’evangelizzazione della sconfitta. Il sapere perdere non per umana e leale sportività, ma per costruzione, per strategia. Chi ha il diritto a esercitare se stesso rispetto alle possibilità professionali deve, a questo punto, avere anche il dovere di sottoporsi a questo sospetto. Come tutti i grandi diritti chiedono anche i più difficili doveri.

Arriverà ancora la rimostranza sugli orari delle partite e sulla loro contemporaneità? Si perderanno ancora “scudetti in albergo”? Varrà ancora la pena di puntare il dito medio contro i tifosi e avere la voglia di scendere dal pullman? Sarri definirà ancora con sarcasmo “certi esponenti della dirigenza juventina” quelli che adesso sono i suoi dirigenti (video)? Considererà ancora “discutibile” la scelta di Higuain (video)?

I contratti e la professione sono liberi, come giusto che sia. Tuttavia, la libertà della parola e del detto hanno una forza contrattuale. Solo che bisognerebbe stare più attenti a contrarla, perché chi la segue e la stringe a sé, lo fa gratis. Chi vuole un calcio fatto in questo modo, e la scelta è altrettanto sacrosanta, abbia, però, la compiacenza di renderlo libero da proclami, da emozioni a cottimo e da altri luoghi dell’umano che altrettanto giustamente reclamano diritti purtroppo in conflitto con quelli che si ergono al di sopra di certi doveri. Quando si parla, quando si abbracciano certe sensibilità (condivisibili o no da chi le osserva dall’esterno), una stretta di mano sorvola con dignità silenziosa le firme e i profitti. L’unica dignità che non sarà mai cambiata dal professionismo. Lo ha detto Freud che “Uno è padrone di ciò che tace e schiavo di ciò di cui parla.”