Leopoldo Jacinto Luque è morto. Aveva 71 anni. Il coronavirus se lo è portato via. Vinse il mondiale con l’Argentina nel 1978. Quello fu un campionato del mondo cruento, dentro e fuori dal terreno di gioco. Fuori dagli stadi, più vicino, più lontano, la giunta di Videla ordinava l’orrore e dentro i più grandi stadi argentini la gente faceva festa. In campo, quelli come Luque facevano a botte. Non era solo calcio. Quel mondiale andava conquistato a tutti i costi. In quella terribile edizione l’espressione a tutti i costi assunse un significato quasi letterale. 

El Pulpo, come era soprannominato Luque, in quel mondiale segnò 4 reti, risultando tra i calciatori determinanti per la conquista di quel torneo. Insieme a Kempes e Bertoni, formò l’attacco che con i suoi goal assicurò il primo titolo mondiale all’Albiceleste.

Durante lo svolgimento di quella Coppa del Mondo, Leopoldo, subito dopo Argentina-Francia, ricevette una notizia terribile. Suo fratello minore Oscar era da poco morto in un incidente stradale, mentre si recava allo stadio per andare a vedere la partita. El Pulpo non si sarebbe mai più ripreso da quel dolore. Nonostante la vittoria del mondiale, nonostante i tremori e le contraddizioni a cui il suo popolo sarebbe stato sottoposto, tra la gioia e l’amarezza, la felicità e l’inquietudine.

25 giugno 1978, Estadio Monumental di Buenos Aires
Finale del Campionato del Mondo tra Argentina e Olanda

Secondo tempo supplementare. Gli argentini conducono per 2-1. Mancano cinque minuti alla fine dell’incontro. Sono stati 115 minuti di gioco senza esclusione di colpi. Quella che molti definiranno in seguito tra le finali più violente della storia del calcio sta per assegnare la coppa ai sudamericani. Falli al limite del regolamento, gomitate, calcioni e altri colpi proibiti hanno scandito le quasi due ore della gara.

Al 115’ Luque subisce un duro colpo al volto, si accascia toccandosi il naso sanguinante e un olandese gli passa affianco urlandogli qualcosa che non ha le parole della cortesia. Pochi secondi, si rialza e corre verso l’azione. Più avanti, Bertoni vince un contrasto sul limite dell’area e batte il portiere olandese in uscita. 3-1 per l’Argentina e partita che ormai non ha più nulla da decidere. Il prosieguo non risparmia i calciatori in campo da altri continui scambi di scortesie. Gli olé del pubblico irritano i giocatori olandesi. Luque, intanto, continua a subire i colpi che gli spettano e con la maglia completamente insanguinata corre in lungo e in largo senza sosta, con la sua numero 14 e il naso ferito sopra i suoi lunghi baffi.

Nessuna protesta, nessuna lamentela. Sa che in mezzo a quel terreno di gioco la parola protesta non può essere avanzata. L’idea di innocenza è assente, perché quel mondiale viene spinto verso l’Albiceleste anche dall’arbitraggio molto discusso dell’italiano Gonella. Eppure, Luque non è più lo stesso. Dopo la morte del fratello, il suo rendimento in campo non è stato più lo stesso.

Quando arriva il triplice fischio, gli argentini corrono ad abbracciarsi. Nel frattempo, alcuni calciatori avversari si salutano stringendosi la mano e qualcuno si scambia pure la maglietta. In quegli anni la casacca per alcune nazionali aveva il valore di una divisa militare. La storia di Luque calciatore finisce lì. Una storia cominciata anni prima grazie ad alcune partitelle in mezzo ai preti, quando il Luque sportivo non era ancora stato predestinato a diventare campione del mondo. Una storia, quella di El Pulpo, che, a distanza di tanto tempo, riflette una parte della storia di quel campionato del mondo. Celebrato, ordinato, inutilmente combattuto. L’Argentina doveva vincere, ma quelli come Luque non avrebbero dovuto soffrire. E non soltanto lui.