Ci risiamo. Le banali, ripetitive e scontate frasi di circostanza hanno cominciato a fare capolino sull'asse Formello - Trigoria. "Non ci pensiamo", "Abbiamo prima altri impegni da affrontare", "Proveremo a regalare una gioia", e via discorrendo. Si avverte chiaramente che l'evento del 4 dicembre si avvicina a grandi passi. No, non parliamo del referendum costituzionale, ma del derby capitolino. Come sempre e (si spera di no) per sempre, fonte di preoccupazioni, tensioni e attenzioni eccessive e quasi sempre ingiustificate.
Sia chiaro, non potrà mai essere definita una partita come le altre. Ma questo discorso dovrebbe limitarsi alla sola atmosfera che si vive in città, ai sani sfottò della vigilia, al gridare forte al mondo quanto è unico e bello e inimitabile lo spettacolo che precede e accompagna quei 90 intensi e combattivi minuti. Il problema, appunto, sta nel "dopo". Nell'abbattersi o nell'esaltarsi all'ennesima potenza, a seconda del risultato, manco fosse la finale dei Mondiali. Nel dare giudizi impietosi o nel dispensare elogi a destra e a manca. Dimenticando un particolare fondamentale: non è una partita a sé, ma un incontro incastonato in una serie di 38 giornate che si chiama "campionato". Vincerlo non significa altro che ottenere tre punti, perderlo non comporta di certo una penalizzazione in classifica.
Guardate Inter e Milan: da anni si scambiano giocatori, oppure gli ex (anche di lusso) non si fanno scrupoli nell'accasarsi dall'altra parte di San Siro. Dall'esterno può trapelare un'amarezza iniziale, ma poi tutto svanisce. Anzi, se provate a chiedere in città, vi diranno che la vera rivalità non è intestina, ma vale più che altro con la Juventus. E le rispettive dirigenze non fanno altro che rispecchiare la mentalità europea delle due tifoserie, ovviamente lasciando per un attimo da parte la storia recentissima dei due club. Per la serie: "ma sì, prendetevelo pure Tizio, e prendetevi anche il derby. Se poi vinciamo campionato e/o Champions, dove starebbe il problema?". Senza alcuna isterica sollevazione popolare.
Nella Capitale, tutto questo, non accade. Perché? Perché a Roma si resta imbrigliati nella mediocre rivalità cittadina, senza pensare in grande. Senza andare oltre il poco ambizioso traguardo della "supremazia capitolina". Pochissime volte in passato il derby (inteso come "solo ed esclusivamente quei 90 minuti") è valso qualcosa di concreto. Mi viene in mente la finale di Coppa Italia del 2013, prima e unica volta nella storia in cui Lazio e Roma si sono incrociate in un atto conclusivo di una competizione. Oppure la stracittadina di ritorno del 2015, quando il gol di testa di Yanga-Mbiwa regalò ai giallorossi la certezza aritmetica del secondo posto. Vittorie importanti per risultati tangibili. Non per bullarsi in giro e "campare de rendita" fino al prossimo derby.
Ecco perché, se oggi mi facessero quella fatidica domanda, non avrei dubbi su che cosa rispondere. "Ma tu, se dovessi scegliere tra perdere il derby e vincerle tutte fino a Natale, o viceversa, che sceglieresti?". 1 fisso. Senza alcuna esitazione. Nello specifico, significherebbe "dare" tre punti alla Roma e battere, in sequenza, Genoa, Palermo, Sampdoria, Fiorentina e Inter. 15 punti su 18 disponibili, con dalla propria parte successi contro dirette concorrenti per un piazzamento europeo.
"Mi dica, dove si firma?"