di Elio Goka

 

I primi venditori della Napoli su cartolina sono certi media. Quasi tutti, purtroppo. Mentre giornali e televisioni, web e mannequin prestati all’arte dell’opinione stentano a parlare di calcio, evitando, per incapacità o per malafede non possiamo saperlo, di analizzare il dato bello a vedersi di un gioco che, al di là del suo metodo estetico, è anche di grande efficacia, il ciclostile della solita produzione d’occasione manda in onda interviste raccolte per le strade e i vicoli della Napoli selezionata secondo il desiderio strategico di rappresentarla nella sua veste macchiettistica, che esiste, ne è parte, ma in mezzo alle tante altre. Ce ne sono, appunto, altre, che, all’insaputa di molti, non hanno bisogno di dirsi in quel modo o in quell’altro, manifestandosi, anche direttamente, anche su richiesta, con la discrizione e la pudica dignità che caratterizza un ambiente che non disdegna riservatezze.

 

Come scritto per le polemiche sulle esultanze e su altre futilità, perché non parlare di calcio? - e che calcio - Parlare di calcio, invece di seguitare a passare il microfono di mano in mano con la speranza, non disattesa, di registrare uscite che, sia pur nella loro innocenza e spontaneità, si prestano al montaggio del cortometraggio a sfondo commiserevole, turistico, di chi fa visita a un luogo da guardare con tenerezza - perché di questo si tratta - e con senso di distacco, come se si trattasse di un sistema di cose che non può far parte della vita “seria”, in quel protocollo pseudo decoroso che, in altri frangenti, non ricorda racconti delle altrui imprese sportive attraverso transiti nel pop folk dei loro luoghi di appartenenza. Di certe grandezze si fa bella mostra del merito sportivo, della tecnica, della serietà nel lavoro, dell’abnegazione, del senso di responsabilità, della “corda seria”, per dirla alla Pirandello. Invece, ogni volta che il Napoli si affaccia su eventualità di grandezza, questi media attivano il recupero del solito amarcord maradoniano, dei tempi andati, della Napoli che fu, col condimento dei tifosi intervistati per strada e ripresi sempre con lo stesso verbo in bocca. Se permettete, il verbo di Napoli, pure nel pallone, conosce ed esprime una varietà di espressioni un po’ più ampia. Spesso pure standosene in silenzio.

 

Basta con questo folklorume che pare conoscere poche cose, preimpostato, col modulo da compilare nelle redazioni dei giornali e delle televisioni. Ancora una volta valga lo stesso invito di altre occasioni. Si parli di calcio, invece di trasformarlo ogni volta in un pretesto per fare attività allusive che ormai hanno un sapore ancora più stantio dell’amarcord e della solita rassegna di macchiette e di ricordi della suddetta Napoli che fu. Tutto questo sa di ridicolo. Un ridicolo che si annida nella necessità di raccontare sempre le stesse cose allo stesso modo, facendone in qualche maniera una regola fissa per una grande opera di retorica di massa.

 

Lo ha scritto Goethe ne Le affinità elettive, “Il ridicolo nasce da un contrasto morale, che si propone in modo innocuo ai nostri sensi”. A cantare sempre le stesse canzoni, prima o poi. I cantastorie non non sempre addolciscono le loro leggende. Pare che di tanto in tanto accompagnino pure la distribuzione del veleno.  Una celebre canzone napoletana invece canta “Accussì Napule nà, na canzone fa’ cantà.‎ Spunta ‘a luna a Marechiare, canta sempe ‘o ‎ricuttare”. A buoni intenditori.