Chi si è mai trovato ad affrontare per la prima volta un lavoro in una catena di montaggio sa quale sforzo sia necessario per trasformare la prima presa di contatto in un adeguamento all’andatura della macchina, ossia per mantenersi in sincronismo con la macchina in movimento; e conosce anche l’angoscia di non riuscirvi. Dato che questo compito di adeguamento è di ogni giorno, l’antinomia che vi è insita rimane di solito sconosciuta. Ma quando ci si rende conto che il lavoratore deve concentrare tutto se stesso nello sforzo di inserirsi nel tempo e nel ritmo della macchina per poter lavorare senza sforzo; che gli si chiede il più attento autocontrollo per avviare un automatismo; che deve concentrarsi per non funzionare quale se stesso, si ammetterà che il compito è paradossale.
Günther Anders, L’uomo è antiquato

Con il dovuto rispetto per ben altre catene di montaggio – i rumori di fondo delle forme avanzate di schiavitù vibrano ancora le esistenze di uomini costretti a vivere per lavorare – il calcio industriale ne ha montata una che deve funzionare sopra i fenomeni e gli eventi. In certi casi, cerca di farseli amici, in un partenariato convinto di riuscire ad affrontare i neri improvvisi tesi dalla natura e dalle cose. I cinque cambi non sono soltanto un effetto del covid, un sostegno alla necessità di comprimere i calendari e gli impegni, ma pure un segnale implicito sulla fragilità di questo calcio.

“I ragazzi sono al limite. Nessuna squadra che gioca il mercoledì sera dovrebbe tornare in campo alle 12:30 di sabato. La domenica nessun problema, ma non a mezzogiorno, perché è da veri criminali. Ti svegli e giochi a calcio. Quella è la fase di recupero. La Premier League deve cambiare. Volete un bel calcio? Date ai ragazzi qualche ora in più di riposo. Ho già parlato con molti in federazione e ho parlato con Guardiola delle cinque sostituzioni. Tutti guardano con una espressione tipo: ‘Oh, è interessante', ma dobbiamo veramente cambiare le cose il prima possibile per aiutare i giocatori.”
Jürgen Norbert Klopp 

Se quasi dappertutto le cinque sostituzioni hanno dato una mano alle squadre e agli allenatori per la gestione di un calendario che costringe i club impegnati su più fronti a giocare una partita ogni tre giorni, di fatto senza sosta a causa degli impegni con le nazionali, in Premier non aver adottato la stessa regola ha ormai condotto molti allenatori al limite della sopportazione. La necessità di fare del calcio un prodotto in perpetua vetrina ha trasformato le competizioni in linee di produzione che non possono permettersi di fermarsi. Non è neanche in discussione la possibilità di prolungarle, di dilazionarle le fasi per poter fronteggiare imprevisti e periodi di pausa a causa della pandemia. Si continua e basta. Protocolli alquanto discutibili, in certi casi in conflitto con le leggi nazionali, hanno separato il mondo del calcio professionistico dal resto della realtà. 

Tuttavia, le vicende che hanno determinato la necessità di introdurre cinque cambi nelle partite non sono le uniche ragioni per riflettere sul fatto che questo modo di intendere il calcio richiede un impiego stacanovista e inarrestabile di calciatori e staff. Pep Guardiola ha più volte richiamato l’attenzione sulle trasformazioni che gli stessi allenatori hanno subito negli ultimi anni. Non sono più figure impegnate nell’educazione e nello sviluppo di modelli di gioco, ma manager costretti a gestire organici e gruppi di lavoro come amministratori dentro gli uffici. La preparazione delle partite, la cura delle condizioni atletiche e tutto l’apparato tecnico devono rispondere a esigenze immediate e pragmatiche, che di volta in volta costringono a fornire dati in un immediato che catapulta le squadre in situazioni in cui il recupero fisico e quello mentale devono avvenire in poco tempo. Spesso, troppo poco per la “macchina umana”.

Il richiamo di un allenatore che ha fatto dello sviluppo del gioco e della tecnica la sua filosofia di guida, allenatore che proviene da una scuola del calcio a suo tempo fondata su questa idea, risuona, solo apparentemente, paradossale in un calcio che privilegia un’esasperazione della schematicità ad altri aspetti tecnici. In realtà, quello di Guardiola, come di molti altri allenatori, è un timore che si origina nella consapevolezza di assistere a un calcio che sta diventando sempre più dipendente da fattori esclusivamente legati al profitto e non all’evoluzione sportiva.

La sua estetica, piena di goal e di ribaltamenti di fronte, sta diventando patetica e prevedibile. Se un tempo la fase difensiva, le marcature e la capacità di difendere il risultato erano al centro delle attenzioni di molti allenatori, oggi la tendenza ha invertito completamente le strategie e i comportamenti di fondo di questo gioco. Allora il gioco era compulsivo, con una ricerca continua della profondità attraverso verticalizzazioni e un’economia del possesso palla che cercava di arrivare in porta col minor numero di passaggi e nella maniera più rapida e imprevedibile possibile. Regolamenti molto più permissivi per i difensori e un atletismo più rude facevano il resto. I punteggi erano più bassi e rimontare un risultato era molto più difficile. Oggi, invece, si assiste spesso, soprattutto in serie A, a recuperi di due o tre goal molto frequenti. 

Quello di adesso è un calcio procedurale, che si riconosce soltanto nell’esecuzione di lunghi possessi palla, di azioni manovrate e frutto di fasi pazienti in cui anche la risposta difensiva sembra assecondarne le caratteristiche. C’è chi pensa che la quantità maggiore dei punteggi e la precarietà dell’esito rendano tutto più spettacolare. In realtà, è solo il sintomo di una maggiore fragilità. Il calcio parla un linguaggio di consumo, offrendosi ben confezionato, ma colmo di zone spurie. Se a tutto questo si aggiunge la richiesta di un ritmo di impegni al limite della sostenibilità, allora la fondazione della fabbrica è definitamente compiuta. 

Ecco che il monito di Guardiola, di Klopp e di altri allenatori della Premier League giunge urgente e preoccupato proprio dal campionato che in questo momento è considerato il più difficile d’Europa. Ed è anche il più ricco. La resistenza da parte della Premier ai cinque cambi – gli inglesi su certe cose non disdegnano di essere conservatori – è il segnale di una resistenza a certi cambiamenti che, però, non tiene conto delle necessità che altri cambiamenti comportano. Il coronavirus non è solo la causa per ci si è introdotto un nuovo strumento (che è anche di difesa), ma è anche l’occasione per analizzare ulteriormente la direzione, ormai chiara, di questo calcio. Il suo linguaggio in campo, fluido e artificioso nelle sue tinte da videogame, è il vestito elegante di uno schema, quello fuori dal terreno di gioco, che muove un mostro finanziario che non può permettersi di fermarsi. I cinque cambi potranno anche diventare dieci, ma lo faranno sempre in nome della catena di montaggio.