L'esonero di Maurizio Sarri è il sintomo ulteriore di un mutamento della percezione dello sport che ha ormai definitivamente normalizzato un suo diverso intendimento. E la Juventus, intesa come club, come società, come sistema di potere – perché di questo si tratta – ne è l’emblema, un emblema che luccica di successi e di gloria ai propri occhi, ma che soffre di una sindrome del disagio e della mancanza di godimento del successo che ha essa stessa contribuito a creare. Non da sola, non di certo senza la complicità di un calcio sottomesso e quasi totalmente affiliato – parola che passi come allegoria, per carità – a un meccanismo che ambisce a un’affermazione illusoria all’interno e deludente all’esterno. Con essa e per essa cantano un’epica patetica e artificiosa i grandi media nazionali, ogni volta costretti a rivedere i loro proclami e i loro elogiativi da strilloni del re, più che da obiettivi osservatori.

La Juventus ha chiuso tra non poche polemiche il suo rapporto professionale con un allenatore, Allegri, che aveva vinto tanto in Italia e che aveva raggiunto due finali di Champions League. Poi, ha immediatamente esonerato un allenatore che ha comunque vinto lo scudetto, al quale era stato chiesto di portare il bel gioco, richiesta che non può diventare realtà nel giro di un anno – sono saltati i criteri elementari di valutazione del gioco del calcio – in una danza di antipatie e di graticole perché a governare sono i famigerati spogliatoi, i senati del nuovo millennio sportivo, in cui si formano giunte capeggiate da procuratori potenti e da assistiti che non sono più soltanto dei calciatori, ma rappresentanti politici. Ecco perché non sarebbe così folle fermarsi a pensare se certi campioni siano da considerarsi davvero tali.

Ogni volta che la Juventus viene eliminata dalla Champions, attiva sempre lo stesso protocollo di revisione. Come in un grande comitato nazionale, ne prendono parte televisioni e giornali, a ribadire il valore di Stato di una società che, per quanto antica e titolata, in questa visione totalizzante delle cose nuoce al calcio nazionale e, cosa ancor più paradossale, a se stessa. Ma è il calcio che hanno voluto rielaborare, fatto di una dinastia imperitura e di un’assenza di spirito identitario da parte di chi dovrebbe contrastarla, ovviamente in termini sportivi. Un feudalesimo di amministratori delegati, di curatori fallimentari, di nuovi acquirenti provenienti dall’estero, di signor nessuno che non hanno niente a che spartire con la storia del club che vanno a rilevare, ai piedi di un dominatore assoluto che dal feudo non sa più come evadere per dimostrarsi tale anche altrove. Ed è un calcio che si libera con disinvoltura di allenatori vincenti e sconfitti, che non dà possibilità, che non ha tempo per aspettare che si compia il tempo, che pretende di comprimere il tempo in una manipolazione talvolta assurda, quasi come se pretendesse di guardarlo come si fa col danaro. 

Arbitraggi sbagliati e condizionanti, var utilizzati in maniera contraddittoria e molto altro si originano pure in questa disposizione ambigua, diretta secondo un cinismo che talvolta sfocia in un’isteria dell’incertezza, appunto, paradossale. Perché, tornando al calcio giocato, resta paradossale che un allenatore venga esonerato o, comunque, allontanato da un ambiente, dopo aver vinto un’Europa League e dopo aver vinto uno scudetto. Al di là di ogni ragionevole dubbio, salta un banco che era stato sempre predicato col principio sportivo di una meritocrazia che in altri frangenti aveva fatto storcere il naso a parecchi quando a sedersi su panchine importanti erano stati allenatori molto giovani e senza esperienza. Stavolta, a reti unificate, tutti ad accogliere l’incarico di Pirlo. Come fosse normale che un allenatore proveniente dagli studi televisivi e da nessuna panchina arrivi improvvisamente ad allenare il club più titolato d’Italia dal punto di vista dei trofei nazionali, che da anni ambisce a risultati che non riesce a raggiungere e che aveva appena chiesto qualcosa a un allenatore che non avrebbe mai potuto costruire un grande meccanismo in così poco tempo. Del resto, Sarri non era andato a genio a tifosi e giocatori sin dal suo primo giorno a Torino. 

Sarà ancora una Serie A sottomessa e indolente, sarà ancora un campionato italiano che chiama a sé nomi e personaggi che lo hanno fatto grande sul terreno di gioco, ma che non è detto che siano altrettanto bravi sulla panchina, in un grande divide et impera comandato da alterazioni arbitrali, incongruenze, contraddizioni e rilanci in un grande gioco tra la politica e la fretta a realizzarsi al pari di un dirsi che dovrebbe affrancarsi da questa insopportabile retorica mediatica che è sempre più la voce del padrone e sempre meno quella dell’onestà intellettuale. La personaggite acuta di uno show business noioso e prevedibile. Imperi duraturi e potenti si sono fondati sulle bugie. Ma cosa sono diventati quando hanno iniziato a mentire pure a se stessi?