Il calcio è unanimemente riconosciuto come una metafora della vita. Senza scadere troppo nella retorica, basta pensare a quanto i cambi di stagione dettino i tempi anche del mondo del pallone: cicli che si chiudono, altri che se ne riaprono, l’odore di nuovo, la voglia di cambiare, la speranza che la nuova fioritura sarà migliore della precedente. È una cosa che succede in piena primavera, quando l’annata precedente si chiude. E che l’anno scorso ha coinvolto due grandi del nostro calcio: il Napoli e l’Inter.

 

Lo scorso maggio, infatti, azzurri e milanesi sono andati incontro a due importanti cambi di gestione: dopo quattro anni, Walter Mazzarri ha lasciato il golfo e si è trasferito nella Milano nerazzurra; per sostituirlo, dopo vari contatti in giro per l’Europa, la dirigenza partenopea ha deciso di puntare sull’esperienza internazionale di Rafa Benitez. Libri che si chiudono e vengono archiviati, lasciando spazio a nuove pagine da scrivere.

 

Le prime righe di ogni quaderno sono quelle che vengono scritte meglio, con calligrafia chiara e schemi ordinati. E così l’avvio di stagione è stato positivo per entrambi: il Napoli giocava, finalmente, un calcio europeo, offensivo e veloce, appoggiandosi all’estro di Callejon ed alla concreta fantasia di Higuain; Mazzarri era riuscito a lanciare in alto l’Inter resuscitando i novelli lazzari Alvarez e Jonathan, irriconoscibili campioni rispetto agli impacciati atleti dell’anno prima. 

 

Poi è arrivato l’inverno, la confusione, e la caduta. Errori individuali, infortuni, mosse tattiche sbagliate, perdita di brillantezza: tutti fattori che hanno contribuito a far perdere al Napoli il treno scudetto e costretto l’Inter ad aggrapparsi con affanno all’ultimo posto per l’Europa League. Le piazze hanno risposto male, malissimo, nonostante le due squadre avessero argomenti per difendersi. Ma dall’Inter si aspettava almeno la lotta per la Champions, e dal Napoli addirittura il tricolore: la classifica dice che ci si sta accontentando delle briciole. E c’è chi già vorrebbe vedere cadere le teste dei mister.

 

È la solita, vecchia storia italiana fatta di impazienza e frenesia. Ma in pieno agosto vaglielo a dire tu, ad un tifoso dell’Inter, che anche quest’anno non sarebbe stato utile per tornare all’Europa che conta; e dillo pure ad un tifoso del Napoli, che per lo scudetto possiamo cominciare a ragionare dall’anno prossimo. Parlagli di progetti, di tempo per apprendere gli schemi, di sessioni di mercato da sfruttare, di rose da compattare: ti risponderà che parliamo del Napoli, o dell’Inter. Mica del Sassuolo.

 

Bisognerebbe ricordarsi che Roma non è stata costruita in un giorno, e capire che non si può pensare di costruire un ciclo vincente dall’oggi al domani. E nemmeno creare uno spogliatoio unito in un mese, oppure essere accettati da un gruppo storico in due settimane. Ci vuole tempo. Tempo: quello che sembra mancare ai tifosi italiani. Tutti, appunto, impazienti e frenetici.

 

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Questi fantasmi (getty images)


Si potrebbero dare le attenuanti del caso: dire, ad esempio, che il fantasma di Mourinho ha fatto scappare cinque allenatori in quattro anni; o che rivoluzionare uomini e sistema di gioco comporta un lavoro lungo; o, ancora, che il Napoli e l’Inter erano due squadre in cerca d’autore e di calma. 

Ma io non lo farò. Piuttosto, voglio ricordare come sono cominciati due connubi vincenti fra allenatori e società, forse i più invidiati dagli italiani. 

 

Il primo fu ingaggiato in una squadra che l’anno prima era arrivata quarta: la prese a novembre ed a fine campionato fu undicesimo, peggior risultato dei quindici anni precedenti. Ma, nonostante tutto, si decise di aspettarlo. 

L’altro partì per vincere lo scudetto e fare bene in Europa: arrivò terzo e venne eliminato al primo turno di Coppa UEFA. Ma, nonostante tutto, si decise di aspettarlo.

Erano, ovviamente, Alex Ferguson e Arsene Wenger, rispettivamente 27 anni al Manchester United e 18 anni all’Arsenal.

 

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Arsene Wenger e sir Alex Ferguson (getty images)

 

I cicli si costruiscono così: anni su anni a formare giocatori, ad allenare giovani per crescerli ad immagine e somiglianza del proprio gioco; anni su anni senza la smania di comprare e comprare per vincere un anno e basta, ma con la voglia di creare qualcosa che duri nel tempo, di forgiare un capolavoro assoluto da conservare nei libri di storia del calcio. Solo così si arriva ad anni su anni passati ad alzare trofei e a giocare sui grandi palcoscenici del mondo, e a costruire una società solida che guadagna 70 milioni di euro l’anno solo dallo sponsor tecnico. Così: senza impazienza, e senza frenesia.

 

Ma vaglielo a spiegare tu, alla piazza, che vuol dire ciclo vincente.

 

Antonio Cristiano