Sin dai tempi della disfatta con la Corea la storia della nazionale di calcio è sempre stata accompagnata dalla storia del suo giornalismo. Di proposito “il suo giornalismo”, perché non sarebbe nemmeno così giusto scrivere del giornalismo sportivo o del giornalismo in generale. E non sarebbe nemmeno giusto fare di tutta l’erba un fascio ripensando alle “cronache” di Oreste Del Buono o ai racconti di partita in partita di Giovanni Arpino. Solo per citarne alcuni. Il “suo giornalismo” perché ogni day after delle sconfitte della nazionale è caratterizzato da una sconfitta più sottile, forse nemmeno così sconfitta, o forse nemmeno così qualcosa. Quella della stampa.

Roberto Baggio è ancora accovacciato sopra quel maledetto, per lui e per chi gli ha voluto bene veramente, dischetto al sole rovente di Pasadena, col Brasile che gli ancora gli corre alle spalle festeggiando un mondiale segnato dal rigore più celebre della storia del calcio. Eppure, a distanza di oltre vent’anni, quel sorvolo sopra la traversa andrebbe quasi ringraziato, venerato, come in una chiesa degli sconfitti. Un monito malinconico che ricorda quanto anche un errore sia un passo verso la gloria. La più difficile da riconoscere. Tuttavia, il giorno dopo Italia-Brasile non furono pochi a maledire quell’errore, Sacchi che lo aveva schierato e che ce lo aveva mandato, il calciatore, l’ultimo poeta del calcio italiano, che aveva, quasi da solo, condotto la sua nazionale fino a quell’istante di infelicità, finalissimo, ultimo, definitivo.

C’è una stampa che non sa riconoscere, che non vuole riconoscere, che fa finta, che si gira dall’altra parte. La stessa che osanna ed esalta ipotetici campioni, che lucida gli sgabelli a opinionisti che un tempo furono grandi calciatori e che adesso servono con la faccia tosta degli impiegati di stato le emittenti nazionali giudicando secondo simpatie e antipatie, oppure, peggio ancora, secondo protocolli e ranghi stabiliti dalle casacche, da alcune società e dai procuratori. Un passato che con arroganza e servilismo travestito da competenza irrompe a fare tanto rumore, a erigere tribunali dell’inquisizione e a montare e a smontare glorie fasulle e per nulla richiesta dai diretti interessati.

Se fino al giorno prima Insigne non era quasi mai stato chiamato in causa per la causa patriottica, il giorno dopo Spagna-Italia il suo dieci improvvisato mezzo terzino e mezzo esterno offensivo è stato bersaglio di critiche impietose e responsabilità sproporzionate rispetto al carico (o allo scarico) precedente. Il tutto sugellato dalla schermata della Rai dopo la partita, un report con su scritto un tiro in porta e zero nello specchio. Una menzogna, visti i due tiri in porta del napoletano (uno sventato da un bell’intervento del portiere spagnolo) entrambi nello specchio dei pali iberici difesi da David de Gea. Nella inconsistenza generale, e Insigne ne ha fatto parte coi suoi demeriti, lui e Belotti sono stati gli unici a impensierire la difesa spagnola. Con poco, ma non di certo in totale assenza. Ma importa ancora meno, in una partita che ha detto semplicemente che l’Italia è stata battuta da un avversario in questo momento più forte, da un calcio in questo periodo superiore, da una cultura sportiva e da un impianto politico (sempre sportivo) più efficace e lungimirante. E perdere con chi è superiore non è peccato mortale. Perdere, forse, non è peccato mortale.

Eppure, la stessa stampa inquisitoria ha distribuito colpe e demeriti secondo criteri e assegnazioni senatoriali, timorata davanti a certi nomi di calciatori probabilmente ancora più spenti e smarriti e non risparmiandosi con altri. E poi, quanta qualità di gioco è stata curata negli ultimi anni per poter criticare chi dovrebbe assicurarla? Se l’Italia di Conte, riuscendoci molto meglio, a suo tempo ha scelto la strada all’italiana, e quella di Ventura, che ancora non sembra aver scelto una strada ben definita, non hanno elaborato stili e tattiche di gioco dirette alla valorizzazione della parola qualità, per quale ragione calciatori come Verratti, Insigne e altri rimasti fuori da determinate scelte dovrebbero essere investiti di responsabilità non istruite, estranee a filosofie che, almeno fino a questo momento, non sembrano fare della qualità del gioco la linea guida principale?

Se questa nazionale di calcio non supera il girone eliminatorio da due edizioni dei campionati del mondo e se adesso, almeno stando a una classifica del raggruppamento delle eliminatorie che vede ormai gli azzurri destinati al secondo posto, il pericolo play off mette a rischio persino la qualificazione ai prossimi mondiali, quanta colpa hanno i calciatori che improvvisamente sono chiamati all’impresa? E, dall’Italia del secondo Lippi, dalla gestione prima apprezzata e poi demolita di Prandelli, dal biennio di transito di Conte, fino all’attuale commissario tecnico Ventura, quanto lavoro è stato indirizzato alla ricerca e alla costruzione di un’identità precisa, di un gioco in grado di competere con le evoluzioni tattiche degli ultimi anni?

Spagna-Italia forse ha detto una cosa precisa e indicativa, che poco a che ha a che fare con le individualità e le aspettative. Quel 4-2-4, almeno come è sembrato nelle intenzioni apparenti, ha avuto il sapore della contraddizione, del rischio inutile e di una latente disperazione già prima della partita. E non per la disposizione delle cifre del modulo (i moduli non sempre sono importanti), ma per come ha schierato in campo un undici in cui ognuno dei calciatori avrebbe dovuto sobbarcarsi qualcosa di estraneo alle proprie caratteristiche. Quasi tutti, chi per una ragione chi per un’altra, messi lì a fare i conti con la propria indole, nemica, avversaria. Si fa così quando si vuole irreggimentare. Ma la regola nel gioco del calcio ha bisogno di idee, soprattutto se si vuole evitare che chi deve eseguirle smarrisca la gioia di rispettarle. E le idee, forse, se ne stanno lontane dal pallone italiano ormai da molto tempo. Pure la critica giornalistica ne risente, e nella maniera peggiore possibile. Una sconfitta collettiva?

Una canzone dei Radiohead, intitolata The National Anthem, "L'inno nazionale", dice più o meno così:

Tutti

Tutti qui

Ognuno è così vicino

Cosa sta succedendo?

Cosa sta succedendo?

Tutti

Ognuno è così vicino

Ognuno ha la paura