4/3/1943 - 4/3/2013. In 70 anni si può vedere il mondo cambiare dalla testa ai piedi; le guerre scoppiare, svilupparsi, e finire; le persone nascere e morire. 70 anni, però, non sono sufficienti a contenere l'umano talento dei prescelti. Quelli che vengono al mondo con l'obiettivo di farsi ricordare. Quelli che nascono il 4 marzo, e che oggi avrebbero compiuto 70 anni. Lucio Dalla è uno di questi. Morì un anno fa, tra le braccia del suo compagno Marco.

E quel giorno, io, volli ricordarlo così. Con quattro righe, che scrissi d'impeto, poche ore dopo aver saputo del fatto che Lucio, in un giorno qualunque, se n'era andato.

 

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I più grandi scompaiono sempre nei momenti più anonimi. Alle prime luci del più insipido dei giovedi mattina, ad esempio. E, proprio per questo, riescono a rendere quel giorno speciale: perchè gli conferiscono i galloni dell'eternità. 

Non sono mai stato un suo ammiratore sognante. Ma quando il giorno è già bello che finito per gli operai e le puttane che amava cantare, ed ancora agli albori per i pigri come il sottoscritto, e vengo a sapere che quel giorno, così anonimo, non è più, qualcosa mi si è smosso, nell'album del passato. 

Ed ho ripensato a quel giorno. Il giorno dei miei esami di stato. 

 

Sono passati oltre dieci anni da allora. Fiero, non avevo la più pallida idea di come si sarebbe incanalata la mia vita: esattamente come adesso, peraltro. Il giorno degli esami è, da sempre, confuso e mai banale. Gli aneddoti della coscienza collettiva si sprecano, tanto da dedicargli film, poesie, libri e chi più ne ha più ne metta. 

Il mio sa di Lucio. 

Il giorno del tema d'Italiano la tensione si tagliava col machete. Ed i giorni precedenti ad esso erano dedicati ad una sola, e sostanziale, attività: la ricerca spasmodica, sul mercato mai conosciuto delle librerie didattiche, dei famigerati temari. Fragorosa lotta all'ultimo respiro per accaparrarsi quello più vasto, ma al contempo comodo da portare all'esame. Nervi a fior di pelle. E pelle a fior di nervi.  

Io, da buon sbruffone, non me ne curavo in alcun modo. La mia trafila di 5 e mezzo ai pluriennali compiti d'italiano era consolidata quanto la mia certezza di voler affrontare anche quella prova senza aiuto cartaceo alcuno, ma in totale autonomia. Fu solo per assecondare le fisiologiche attenzioni di mia madre che, quella mattina, portai - seppur controvoglia - con me un bignamino d'invereconda tristezza, comprato, per la modica cifra di milleduecento lire, dal più bieco dei vendoti ambulanti. 

Era, quello, il primo anno delle prove multiple d'italiano. Il 'saggio breve', l' 'articolo di giornale': incomprensibili, ma fascinosi modi di chiamare un lavoro scrittoriale di ragazzini ancora nemmeno maggiorenni. Poi, c'era il tema classico, quello di letteratura. Quello che toccò a me, all'epoca, riguardava 'La luna e i falò', di Pavese. La mia repulsione per la letteratura classica era nota a me, ma soprattutto alla mia prof dell'epoca. Oltre che la mia repulsione per Pavese. E fu solo per una questione di morbosa curiosità che, nascosto sotto il mio banchetto zozzo di gomme da masticare e non meglio note appendici di chissà quale malattia virale, decisi di consultare l'indice di quel drammatico temario. Otto temi già svolti, in tutto, racchiusi da una copertina squallida ed anonima quanto sembrava la giornata di oggi. Uno di quelli riguardava proprio 'La luna e i falò'. Una dose di culo forse più inaspettata che madornale. O viceversa. Forse sarà per quella sproporzionata iniezione di fortuna che, da quel giorno ad oggi, ne ho vista così poca. 

 

E, forse, anche perchè non la seppi sfruttare. O la sfruttai troppo bene. Banco accanto al mio: una mia compagna di classe, evidentemente messa in difficoltà dalle tracce di quei temi, almeno a giudicare dalla frequenza del suo batter degli arti, inferiori e superiori, che quasi sfiorava i 50 Hertz.

Non ci pensai un attimo: rapito non dalla generosità, ma dall'incontenibile voglia di scriver di mio pugno l'ostico tema 'sociale', passai a lei il temario. Ed io mi feci avvolgere da quelle righe.

Il 'saggio breve' di quel giorno riguardava 'la piazza'. I suoi significati sociali, i suoi risvolti antropologici. Poi, di corredo, nella traccia, a far da spunto in un tema assolutamente aperto, quella che ai miei occhi era una poesia fotografata d'una delle Piazze più magnificenti d'Italia - Piazza Maggiore, a Bologna -, più che una canzone. 

 

 

'Piazza Grande' è la sua espressione più libera ed armoniosa. E quella più vicina a me, forse proprio per questo episodio. E' la dedica meglio compiuta di sempre ad un senzatetto, reso libero di sentire ed al contempo fare sua l'intera piazza, ereditandone lo spirito ed antropomorfizzandone il contesto. Il tutto soavemente e livemente autobiografico. Sì, perchè quella piazza, piazza grande, era e resterà sempre sua. Di Lucio.    

Che, per voglia, per caso, o per passione, seppe anche chiudere quel magnifico affresco di emozioni, uomini e luoghi, con quello, che, oggi, sa di vivo ma fallace epitaffio. 

 

"E se non ci sarà più gente come me,

voglio morire in Piazza Grande". 

 

Peccato. Non ci sei riuscito. Perchè hai terminato il tuo stupendo percorso in Svizzera. Il condizionale, però, l'hai messo bene. La tua unicità artistica tale rimarrà. Tanto per la cultura di questo paese, quanto nei miei stupidi aneddoti.

 

Alfredo De Vuono

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