Negli ultimi tempi si tende a cedere alla tentazione di consegnare a una deriva tatticistica e speculare, difensivista e rognosa, la formula vincente del power futbol di nuova generazione. Invece, forse, varrebbe la pena di giocarlo con un po’ di coraggio e di creatività, il calcio.
L’Italia vista nell’edizione 2016 del Campionato europeo, probabilmente un torneo qualitativamente inferiore rispetto ad altre edizioni, esce a testa alta soprattutto grazie all’atteggiamento di un gruppo di calciatori capace di superare con grinta e umiltà la barriera pregiudiziale di critiche prima del tempo. I “non sono all’altezza” prima di questo europeo erano tanti. Adesso sembrano quasi tutti rientrati. E giustamente.
Quello che si potrebbe stentare a comprendere, invece, è il merito incondizionato attribuito a una guida tecnica, quella del ct durato un biennio compresso in un saluto già sicuro ancora prima dell’inizio dell’europeo, che, di fatto, a questa selezione nazionale ha cercato di trasmettere un sistema di gioco che di progettuale, forse, sembra avere avuto ben poco. E la cosa più grave, che passerà sotto silenzio, è che questa gestione non ha fatto altro che consentire all’opinione generale di attribuire scarsa qualità al calcio a cui il selezionatore ha attinto per formare un gruppo indirizzato a un’interpretazione esclusivamente difensivista, fondata soltanto sulla volontà ad annullare il gioco avversario.
Se si fosse trattato davvero di un progetto di prospettiva, si sarebbe cercato di costruire un impianto rivolto pure alla cura della qualità. Non è detto che il calcio italiano non ne abbia. Se si fosse trattato di un progetto reale, forse, questa nazionale avrebbe cercato di puntare, sin dal primo momento, anche su calciatori come Gabbiadini, Insigne, Jorginho, Pavoletti, El Shaarawy, solo per citarne alcuni che di qualità tecnica possono vantarne (e ce ne sono altri). Di questi non sono stati nemmeno convocati. Altri, come Insigne, non sono stati presi in considerazione in questo campionato europeo. Non si capisce come sia possibile che un calciatore come l’attaccante napoletano, nella stagione appena trascorsa in doppia cifra nella voce assist e in quella di realizzazione, considerato tra i migliori sul piano del rendimento tattico e tecnico, anche comparato a parametri internazionali e apprezzato anche all’estero, abbia giocato una decina di minuti in una partita a qualificazione acquisita e qualche scampolo negli ottavi e nei quarti, completamente fuori dall’orologio tattico, ovviamente, visto che in entrambe le occasioni c’era soltanto da difendere (nemmeno fosse una novità).
Invece no, tutto deve obbedire al protocollo tattico, al grido di battaglia, anche se per ossequiare questo metodo si è costretti a rinunciare a uno dei fondamentali del gioco del calcio. Saperlo giocare meglio degli altri. È stato scelto, al contrario, di fondare questa ipotesi di progetto su un’esasperazione del luogo comune che vuole il calcio italiano come votato a una scuola pragmatica e antiestetica. E questa scelta non ha fatto altro che consolidarlo, a dispetto di quanto meriterebbe di essere rintracciato come potenzialmente qualitativo. L’Italia ne ha avute di grandi squadre, e, senza dover invidiare altre nazionali, ne ha espressa di qualità quando ha vinto (anche quando non ha vinto) e ha giocato grandi manifestazioni.
Il tanto vituperato Cesare Prandelli (che aveva preso anch’egli una nazionale in crisi, dopo il mondale deludente del 2010) agli europei è arrivato in finale, esprimendo anche un bel calcio. Chissà cosa sarebbe successo se quella nazionale non avesse incontrato la Spagna più forte di sempre. I se, però, lasciamoli da parte. Piuttosto, sarebbe più “progettuale” soffermarsi sull’eventualità di guardare a questo gioco come un gioco, e non di certo per la sua retorica spicciola, ma per quante possibilità di soluzione esso potrebbe offrire per sopperire pure a eventuali distanze dagli avversari più temuti. Il calcio oggi non consente nemmeno grandi calcoli da questo punto di vista.
Forse sarebbe ora di uscire da questa bolla isterica, anche un po’ fanatica, che sembra compiacersi al cospetto di un pallone che pare trovare nell’esaltazione, nella rabbia e nell’aggressività (in campo pagata con tanti, troppi cartellini) le uniche vie d’uscita dalla sconfitta. Provare anche a giocarlo, invece? Intanto, si prosegua pure con l’elogio di Stato. Se proprio dev’essere necessario, col coro patetico di media adoratori che prima avanzano dubbi sulla qualità dei calciatori della nazionale e poi ne esaltano la sua guida tecnica che niente fa per migliorare la qualità (un bel paradosso), sarebbe più giusto dedicarlo ai calciatori. Hanno obbedito e hanno combattuto. In fondo, questo gli era stato chiesto.