Sulley Ali Muntari è stato squalificato in seguito alla doppia ammonizione comminata dall’arbitro nell’ultimo turno di campionato, durante la partita Cagliari-Pescara. La seconda è scaturita dalle proteste e dall’abbandono del campo in seguito ai cori razzisti indirizzati al calciatore ghanese. La notizia della squalifica desta le conseguenti polemiche, con le relative indignazioni.

Il senso dello scandalo, in questo caso, colpisce il simbolo e il significato, ma non può fare altrettanto con il meccanismo. La motivazione del giudice sportivo è la seguente:

"Considerato che i pur deprecabili cori di discriminazione razziale sono stati percepiti nell’impianto in virtù anche della protesta silenziosa in atto dei tifosi (come segnalato dagli stessi rappresentanti della Procura federale) ma, essendo stati intonati da un numero approssimativo di soli dieci sostenitori e dunque meno dell’1% del numero degli occupanti del settore (circa duemila), non integrano dunque il presupposto della dimensione minima che insieme a quello della percezione reale è alla base della punibilità dei comportamenti in questione, peraltro non percepiti dagli Ufficiali di gara (come refertato dall’Arbitro), a norma dell’art. 11, comma 3"

Il regolamento avrà pure applicato il regolamento, ma, come si conviene da protocollo semantico del potere, questo non manca di manifestarsi in maniera sarcastica e beffarda. Diversamente, non avrebbe avuto senso la feroce ironia della letteratura di Franz Kafka davanti all’esercizio della “Legge”.

Il calcolo percentuale dei cori, la possibilità di averli percepiti grazie alla “protesta silenziosa” dei tifosi (sembra quasi che la vicenda si traduca in una dimostrazione di civiltà), fino al numero esatto di componenti del coro, tutto questo detta con chiarezza la linea malignamente grottesca di un meccanismo che applica se stesso, sì, in nome della legittimità del diritto, ma che, in fondo, parla ai fatti e ai giudicati con l’arrogante tracotanza dell’evidenza tradotta in paradosso. Il potere, né più né meno del potere. E il campionato italiano è quasi sempre stato una dimostrazione del suo esercizio. Un fenomeno che raccoglie milioni di persone non può di certo lasciarsi sfuggire l’occasione.

Applicazione automatica del regolamento, come nella peggiore (o delle migliori) macchine dell’ordine sistematico uscite dal Wall dei Pink Floy o da un romanzo di George Orwell. La “Legge” in nome della legge. Eppure Le Monde, The Guardian e molti altri autorevoli giornali internazionali, persino l’Alto Commissario delle Nazioni Unite (console del Ghana compreso) hanno sottolineato l’atteggiamento di Muntari elogiandolo come un comportamento esemplare e di grande significato, quasi adottandolo come momento simbolico per sottolineare la necessità di affrontare questo genere di situazioni secondo altri strumenti.

In fondo erano in pochi, assiepati a trascorrere una domenica di “smaltimento”. Erano in pochi, erano in dieci. E si sentivano perché c’era una protesta silenziosa. Erano in pochi e Muntari si è reso colpevole di aver provocato una briga di paese con un piccolo gruppo di avventori davanti a un bar di periferia. Né più né meno quello che succede per strada quando qualcuno si diverte a fare “buu” o a insultare qualcuno per il colore della pelle. Con l’unica differenza che per strada se il diretto interessato reagisce, rischia pure di essere preso a calci e a pugni. Dentro un campo di gioco, invece, in serie A, se reagisce, mal che vada rischia la seconda ammonizione e una giornata di squalifica. Ma è la “Legge”. Ne L’opera da tre soldi Bertolt Brecht scrive: “La legge è fatta esclusivamente per lo sfruttamento di coloro che non la capiscono, o ai quali la brutale necessità non permette di rispettarla”.