È andato via Roberto Mancini, il poliziotto che ha contribuito non poco alle inchieste sulla Terra dei Fuochi. Un tumore ai linfonodi se l’è portato via. 54 anni è un’età “ideale” per finire vittima della peste della modernità, una pestilenza che non abbiamo ancora capito se piovuta dal cielo, pardon, salita dagli inferi, o se indotta da un qualche genere di deviazione morale fuori controllo.

 

È piuttosto frequente sapere di persone che, a causa del cancro, perdono la vita tra i quaranta e i cinquant’anni. L’esistenza li conduce all’età adulta e, per mano di un molesto visitatore, si trovano reclusi in una prematura e brutale vecchiaia. Qualcuno se ne sta in disparte, in silenzio, nascondendo la sua malattia pure alle persone che lo conoscono, rassegnato a consegnarsi, prima o poi, all’epilogo che nessuna cura è in grado di evitargli. Qualcun altro invece istruisce il suo senso della reazione, dicendo al suo male accomodati con me e assisti alla mia forza.

 

In un caso o in un altro, è sempre un prodigioso senso della pietas che subentra a benedire, o maledire, una particolare forma di umanità, che annulla tutto, fino allo spoglio completo che restituisce il malcapitato a una pura rappresentazione di sé. Roberto Mancini ha ispezionato i luoghi della “Terra dei fuochi”, ha vissuto a lungo sulla superficie dell’inferno invisibile che ancora oggi ricopre il suo sottosuolo infestato dalla malattia. Roberto Mancini ha lavorato per anni, da poliziotto, cercando di fornire agli organi giudiziari il maggior numero di elementi possibile per l’esito delle indagini, verbalizzando non solo la sua esperienza professionale, ma pure quella di vita, purtroppo tradotta in quel tumore che negli ultimi tempi era diventato ancora più forte.

 

Quando negli anni ’90 Roberto Mancini già produceva informative molto importanti, la Terra dei fuochi non aveva ancora fatto capolino nell’immaginario collettivo. La terra assorbiva veleno e il poliziotto Mancini ci lavorava a stretto contatto. In questi anni non si è parlato dell’eroe Mancini, del poliziotto impegnato in una battaglia quasi impossibile, di un uomo vittima della malattia ma, nonostante tutto, per nulla vinto dalla fatica e dallo sconforto.

 

La società trascorre il suo tempo a mimetizzare le sue paure dentro stereotipi e luoghi comuni, addossando a vittime e carnefici precostituiti le colpe e le pene di un gioco al massacro dove la prima responsabilità è la miseria del pensiero. Si dà voce a qualunque cosa possa portare clamori, si dà spazio al frastuono del noi senza una diagnosi veritiera dell’io. Sarebbe forse rivedibile questo sistema di assegnazioni? Non è forse l’incuria del senso del riconoscimento reale la vera anomalia della politica e di molte altre cose?

 

Così, nello stesso giorno, ti ritrovi davanti un applauso sconsiderato tributato a chi ha devastato il senso del dovere e allo stesso tempo davanti a chi ha condotto fino all’estremo lo stesso senso del dovere. “Oh Umanità!”, cifra l’epilogo della storia di tremenda sofferenza del povero Bartleby lo scrivano. Solo che lui non ha potuto beneficiare nemmeno di un saluto, finito da solo dentro il giardino di una prigione. In mezzo a quel giardino, ancora oggi, adesso, passeggiano piano quelli come Roberto Mancini. Applaudite loro.

 

 

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka

 

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