Un tempo c’era la fila di gambe sotto i pantaloncini e dentro i calzini tirati sotto le ginocchia su cui erano scolpiti i muscoli e la serietà. Un’immagine scultorea era la sezione inferiore di quello che si leggeva sui volti dei calciatori. Stare su un campo di calcio era una faccenda d’onore. Il fútbol era l’essenziale e la poesia al tempo stesso. La parola si faceva gesto e il gesto si faceva parola. L’azione combinava tanto l’estetica quanto la finalità. Era così che questo gioco catturava le aspettative di milioni di persone. Il rigore andava d’accordo con la felicità.

Qualcosa ha cambiato le cose. Non è stato soltanto una faccenda di danaro. Qualcosa di più corrosivo, ancora più dei soldi. Nuove forme di vanità, di imposizioni personali, di percezione dell’io e di adattamento a tutto quanto disposto ad accogliere nuove forme di perversioni in un’intimità collettiva con nuove regolazioni. Il calcio ha mutato se stesso, esprimendo una fisiognomica dell’avvenimento votata a una vanità di consumo, a uno status generale in cui l’ordine è spettacolarizzare. A dispetto della competizione, dello sport, dell’agonismo, del risultato, del gioco stesso. 

I calciatori assumono pose da vetrina, i sistemi di gioco si perdono dietro logiche ossessive e patetiche. Permane questa ideologia del palleggio a tutti i costi, da cui derivano più svarioni e goal subiti ingenuamente che azioni degne di rilievo. I difensori non sanno più marcare, molte squadre non sono in grado di difendere vantaggi di due o tre goal – un tempo la serie A, che vantava una tra le migliori tradizioni di difensori al mondo, registrava punteggi sempre bassi e risicati – e, spesso, si assiste alla totale incapacità di misurare i momenti delle gare, di intenderne i frangenti e i rimedi. Fino a uno scadimento che, per paradosso, cade in atteggiamenti infantili e antisportivi.

I giocatori soli davanti alla porta, a volte anche a porta indifesa, preferiscono tentare colpi di tacco e altre giocate plastiche, invece di badare alla sostanza dell’obiettivo. Una grottesca e impertinente esibizione di una padronanza tecnica che dai grandi fuoriclasse del passato quasi mai subiva forzature o privilegi fini a se stessi. E gli atleti di un tempo non mancavano di apparire in maniera forte e provocatoria, ma avevano realmente qualcosa da dire. Le rimostranze dicevano sul serio di istanze che riguardavano quello che accadeva dentro e fuori il terreno di gioco. Adesso, invece, si assiste di frequente ad atteggiamenti da bulli, a manfrine maleducate e, altra faccia della medaglia, a ipocrisie verbalizzate in luoghi comuni e vocii monocordi.  

Questo è un calcio che non si sporca più. È una raffinata e lussuosa catena di montaggio che parla un linguaggio monotono, grigio, sotto il vestito che in HD trasmette emozioni da videogame. I simulatori sono entrati nella realtà, condizionando i desideri di emulazione e, cosa ancora più sottile, generando un tipo di tensione non più identitaria, non più viva, di vita, ma di acquisto, di ebbrezza del momento. Il pallone in questi anni ha assunto una dimensione estetica che è più patetica che agonistica. Oggi assistere a un attaccante che spazza via la palla è quasi un istante di meraviglia. La concretezza è il momento realmente rivoluzionario.