Ci risiamo! Ed è triste constatare come ormai gli indizi per fare una prova sono davvero tanti. La premessa è d'obbligo e doverosa: Daniele De Rossi è un giocatore che ha scritto pagine di storia importanti con la maglia della Roma e quella della nazionale e non si discute nemmeno quello che rappresenta fuori dal campo. E' forse proprio questo che rende ancora più amaro analizzare ciò che combina in campo quando, come si dice a Roma, a Daniele "si chiude la vena". Ultimo episodio, in ordine cronologico, lo schiaffo a Lapadula che ha compromesso la partita della Roma (due punti persi) e, non meno importante, rovinato il pomeriggio di più di qualche fantallenatore. Un'ingenuità che non ti aspetteresti, ma che in realtà purtroppo non ti sorprende, da un giocatore di tale esperienza e, soprattutto, in regime di VAR.
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Non ci sorprende, ecco, ma perché? Questo è l'inquietante interrogativo che bisogna porsi e che purtroppo fatica a trovare risposta. Più di qualcuno ha subito difeso De Rossi, inevitabile per chi conosce la persona, anche se il primo a fare mea culpa, come giusto che sia, è stato proprio il diretto interessato. Veemente la sua protesta in campo; affranto e mortificato nel rivedere l'episodio, gratuito, nel post-partita. Perché, lo dicevamo, De Rossi, ne siamo certi, non vorrebbe fare certe cose, ma quando entra in clima partita, le cose cambiano. Come succedeva a volte al suo immenso predecessore, Francesco Totti. Che in comune hanno l'amore viscerale per la maglia che portano e per quello che rappresenta, anche se purtroppo non è sufficiente come attenuante. Il dato, però, influisce e non è un caso che dei 14 rossi, il centrocampista romano ne abbia presi 12 con la maglia della Roma (3 per doppio giallo e 9 diretti) e 2 (entrambi diretti) con quella della nazionale (rispettivamente in 574 e 117 presenze, medie 0,021% e 0,017%). Il percorso vizioso comincia nel 2004, quando sulle spalle De Rossi indossava ancora il 4, con l'espulsione a Leverkusen, a cui fa seguito due anni dopo un altro rosso europeo a Bruges per una gomitata. Spalletti non gliele manda a dire. Ma quel gomito De Rossi lo rialza, purtroppo anche nel Mondiale francese del 2006. Ne fa le spese McBride e lui rischia di perdersi una delle emozioni più grandi della sua vita.
Il giudice sportivo lo "grazia". Rientra nella finale contro la Francia, consumandosi per 4 partite in tribuna. La catarsi arriva con il rigore, pesante, il terzo, che segna di prepotenza all'incrocio. Alza la Coppa al cielo di Berlino, ma il suo Mondiale verrà purtroppo ricordato anche per quella maschera di sangue dell'avversario statunitense. E se lì c'era l'attenuante del contrasto di gioco, 5 anni dopo DDR16 (nomignolo con cui è famoso a tutte le latitudini) comincia a specializzarsi nelle reazioni a palla lontana, che diventeranno purtroppo abbastanza frequenti. Quella foga nel liberarsi della marcatura, che troppo spesso sfocia in condotta violenta. La Roma ne fa le spese ogni volta, a cominciare dalla gara contro lo Shakhtar Donetsk del 2011. Gomitata a Srna a palla lontana. In campo viene espulso Mexes; lui viene pizzicato dalla prova tv e sono tre turni di stop. L'anno successivo compromette un derby combattuto stendendo il capitano della Lazio Stefano Mauri. Dinamica simile al caso-Lapadula, con un pizzico di violenza in più dovuta al pugno chiuso.
Saltiamo al 2014. Ancora una volta De Rossi è tradito dalla sua straripante foga agonistica. Il centrocampista giallorosso non riesce a gestire la frustrazione di un risultato penalizzante e sfoga la sua rabbia contro il compagno di nazionale Giorgio Chiellini. Entrata dura, punita da un rosso diretto sacrosanto.
2014 che si rivela anno funesto sotto questo punto di vista, perché De Rossi si becca altri tre turni di stop. Con il VAR ancora solo nelle idee, ci pensa la prova televisiva a fermarlo, e a sbattere sotto il naso di tutta l'opinione pubblica la brutalità del gesto: il pugno con cui colpisce Icardi lascia amarezza e delusione per la violenza, ma anche per la codardia, arrivando da dietro. La recidività lo inchioda e Prandelli lo esclude dalla nazionale per rispetto del Codice Etico.
Proprio dalla nazionale ricomincia il red car(d)pet della storia di Daniele De Rossi, e come al solito si conferma croce e delizia. A Palermo contro la Bulgaria segna su rigore e poi viene tradito da un fallo di reazione su Micanski, che lo colpisce proditoriamente da dietro. Nel percorso dei rossi, questo è forse quello più perdonabile, vista l'entità della provocazione, anche se mantenersi calmi dovrebbe essere prerogativa di un calciatore professionista ma, si sa, la trance agonistica spesso lascia poco spazio a pensieri zen.
In pieno stile "fallo su Chiellini", l'ira di De Rossi colpisce ancora in una gara cruciale, contro il Porto per il preliminare di Champions' League all'Olimpico. Fallaccio che non sfugge all'arbitro e cartellino rosso che, come accade nel film 300, scaraventa la Roma nel baratro di un'eliminazione già ben avviata. Il rosso di Emerson servirà solo a completare il quadro.
E arriviamo a domenica scorsa. Per l'ennesima volta il velo che scende sugli occhi di De Rossi. Quella strattonata a Lapadula, che sbraccia, certo, ma che al contempo ingiustamente riceve uno schiaffo in pieno volto. La caduta rovinosa a terra, il VAR, il rigore, il rosso, il pareggio. E il pomeriggio della Roma che diventa un incubo. Poi le scuse, che parzialmente riabilitano il giocatore, anche se quell'aggiunta sull'esagerazione della "scena" di Lapadula, che magari era preferibile lasciare nella mente e non dargli parola.
Perché non c'è attenuante che tenga. E se Parolo e Bastos prendono lo schiaffetto senza dire nulla, ciò non vuol dire che sia giusto farlo. Tentare di evidenziare il concorso di colpa con Lapadula è la cosa più sbagliata che ci sia, forse. Fermiamoci quindi alle sole scuse, a Lapadula stesso, ai compagni, ai tifosi della Roma, ai tanti bambini che crescono nei parchi sognando di diventare come De Rossi, perché centinaia di gialli e decine di rossi non compromettono una bellissima carriera. Avremmo preferito non dover commentare così tanti episodi negativi. L'importante è prenderne atto senza cercare giustificazioni, perché non esistono. Il troppo amore per una maglia non può e non deve creare questo. Mai. E quando racconteremo De Rossi ai nipotini, preferiremmo farlo per i suoi tackle duri ma onesti, per i suoi bei gol, per i suoi gesti fuori dal campo (come le scuse alla Svezia per i fischi all'inno), coltivando la speranza, speriamo ben riposta, di non dover commentare un altro episodio di condotta violenta.