Fanno discutere in queste ore la natura, l’origine e l’efficacia della decisione di Casa Milan di portare i giocatori in ritiro a Milanello (previa annullamento della cena di Natale del club rossonero) fino a data da destinarsi. Molte anche le speculazioni in merito, a cominciare dalla voce, poi impetuosamente smentita dalla società con una nota ufficiale, di un Gattuso orientato a dimettersi per non aver gradito l’atteggiamento disteso della squadra reduce dalla sconfitta del Bentegodi.

Voci o no, indiscrezioni o meno, a capire e valutare l’effettiva utilità di una decisione comunque drastica, magari non più chiamata ritiro punitivo come qualche tempo fa, ma che certamente non rappresenta un premio e una gratificazione per i giocatori in un periodo evidentemente complicato, può aiutare rievocare alcuni dei casi precedenti più noti, tra le squadre di medio-alta classifica (o che puntino ad essere tali). E il bilancio non appare incoraggiante per la squadra di Gattuso, che oggi ha affrontato a Milanello il primo giorno di ritiro, che il club intende comunque essere costruttivo, anche dal punto di vista dello spirito di gruppo.

Non andò esattamente così, però, all’Inter di Pioli. Tempi recentissimi, e tra le ultime grandi a decidere di chiudersi nel proprio centro sportivo in un periodo complicato. Era soltanto aprile di quest’anno, sembrerebbe una vita fa, a giudicare da quell’Inter e da quella attuale di Spalletti. Quell’Inter, quella di Pioli, era reduce da un pesantissimo 5-4 a Firenze, e attesa dall’impegnativo match contro il Napoli. Il club decise di richiamare i giocatori all’impegno, chiudendoli tra le mura di Appiano Gentile: "Il modo in cui è maturata la sconfitta in casa della Fiorentina è stato inaccettabile per i nostri tifosi, sia in Italia che all'estero, e siamo intenzionati a far sì che questo non si verifichi più”, scriveva in quei giorni il club nerazzurro, invitando i giocatori “a rappresentare i colori nerazzurri con orgoglio e onore. Il nostro obiettivo resta quello di terminare il campionato di Serie A nel miglior modo possibile e qualificarci per una competizione europea, dando il massimo in ogni partita”. Quanto quel ritiro servì alla qualificazione europea, acciuffata invece da Lazio, Atalanta e Milan, lo racconta la cronaca. Non servì a molto, invero, neanche nell’immediato, perché i nerazzurri persero in casa con il Napoli, consacrando un periodo nero di due settimane, partite con il derby del 2-2 e della rimonta rossonera con Zapata al 97’, da un punto in tre partite.

Decisione simile, appena due settimane dopo, per il Torino di Mihajlovic. Punizione a tutti gli effetti, e ancora il Napoli di mezzo: pesantissimo il 0-5 in casa contro gli azzurri convinse il serbo, più che la società, a costringere i giocatori a un ritiro punitivo che servisse più da lezione, piuttosto che come strumento per il futuro, sul finire di una stagione che non aveva nulla da chiedere. Anche perché il ritiro, anche in questo caso, servì a poco: era il 17 maggio, e dopo 4 giorni di ritiro il Torino perse anche a Genova, contro una più motivata squadra rossoblu, che firmò di fatto la salvezza con il 2-1 sugli spenti granata. “Ci aspettavamo sicuramente una prestazione diversa. Il Genoa aveva un obiettivo e noi no, ma non per questo dovevamo venire qua a non giocare la partita”, commenterà Lombardo, vice di Mihajlovic, a fine gara, evidentemente sconsolato dai magri esiti del ritiro. Il serbo sembra essere particolarmente incline alla misura del ritiro in tempi difficili, avendola messa in atto in precedenza, l'ultima volta proprio al Milan: dopo la sconfitta con l'Atalanta, d'accordo con il club fu deciso il ritiro. Non salvò Mihajlovic da un doloroso esonero, senza la possibilità di giocarsi la finale di Coppa Italia contro la Juventus. Non cambiò, di certo, la stagione dei rossoneri: forse più utile sarebbe stato, come suggerivano gli Autogol, un ritiro a Medjugorje.

Non troppo più lontano nel tempo, aprile dello scorso anno, l’ultimo ritiro punitivo della Lazio, a Norcia, deciso unilateralmente da Lotito, in ore di altre decisioni importanti, come l’esonero di Stefano Pioli e la promozione in prima squadra di Simone Inzaghi, all’indomani della pesantissima sconfitta per 4-1 nel derby di Roma. Gli effetti positivi della decisione furono solo illusori, complici probabilmente gli avversari non irresistibili: vittorie contro Palermo ed Empoli dovute più alla scossa del cambio in panchina, prima di un nuovo baratro rappresentato da addirittura tre sconfitte consecutive (Juventus, Sampdoria e Inter). Lotito probabilmente sognava che i pernottamenti i quel di Norcia garantissero ben altro futuro a breve termine alla sua Lazio.

C’è, come sempre, l’eccezione che conferma la regola, e come spesso capita è anche abbastanza fragorosa. E, non per niente, è il ritiro punitivo deciso, nell’autunno del 2015, da quella che più di ogni altra è la squadra di vertice per antonomasia. All’indomani dalla celebre sconfitta contro il Sassuolo, con la Juventus lontanissima dalla vetta, e quando ormai tutti gli addetti ai lavori credevano che il passaggio i consegne dopo cinque titoli di fila dei bainconeri fosse ineluttabile, Massimiliano Allegri e il club decisero di chiudere le porte di Vinovo, alla caccia di una rimonta ritenuta impossibile dai più. "Ora staremo due giorni tutti insieme appassionatamente e prepareremo il derby contro il Torino. Il nervosismo ed essere isterici non servono”. Servì, invece, quella decisione, caso più unico che raro. Certamente, come racconteranno poi i protagonisti, servì ad una assunzione di responsabilità collettiva. Il post-Sassuolo della Juventus è universamente riconosciuto come la chiave di svolta di quella stagione. Quanto sia servito effettivamente il ritiro, e quanto abbia inciso invece la caratura effettiva dei protagonisti, difficile dirlo, anche se farsi una mezza idea è certamente possibile.