Bisogna anche sapere desiderare. Il Napoli della scorsa stagione è stato salutato nella scorsa stagione. La primavera del terzo scudetto ha congedato la sua felicità e chi ne era stato artefice. E con essi sono andati via modelli e aspirazioni. L’errore, infatti, è stato pretendere di perseguire in quello che non era più possibile continuare.

Adesso il Napoli è una fase di cambiamento. Un cambiamento di cui nessuno ancora conosce la destinazione e l’identità finali. Lazio-Napoli, brutta secondo molti, utilitarista secondo altri, è stata la dimostrazione di un’intelligenza nuova, forse necessaria, per una squadra che ha capito che non deve ostinarsi a cercare di essere quello che non è più.

Mazzarri è colui che sta conducendo il Napoli verso qualcosa che a giugno avrà una guida diversa, una squadra diversa, con nuovi calciatori, alcuni già arrivati, e con altri che andranno via. La rifondazione felice che De Laurentiis non ha voluto compiere alla fine dell’annata più bella si è imposta gradualmente fino a costringere il Napoli a diventare qualche altra cosa. 

Tanti anni di fascinazione, a volte fondata e giustificabile, di 4-3-3 da declinare ad ogni costo, fino alle costrizioni e snaturalizzazioni di allenatori come Ancelotti, hanno convinto il luogo napoletano del calcio a credere che esista un solo modo di giocare, una sola maniera di andare in campo e di restarci a tutti i costi in nome di un’ideologizzazione del gioco del calcio che, da sempre, è stata ragione intensa ma breve per molte esperienze. Lo stesso Spalletti nell’anno dello scudetto ha dimostrato il contrario e la stessa ostinazione, quando c’è stata, a non sconfessare un modulo e una filosofia sono stati parzialmente fatali quando qualcosa, forse, andava cambiato. Vedere il quarto di finale col Milan in Champions.

La prestazione andata in scena a Roma non dev’essere ragione di diffidenza da parte degli sguardi estetici del pallone. Chi ha memoria, parola abusata e fraintesa anche per motivi più delicati, sa che pure il Napoli di Maradona quando vinceva lo faceva interpretando un gioco a volte votato all’assolutismo della sostanza, mettendo da parte ogni sfoggi tattico che non fosse mirato al risultato. Talvolta con tanto di saggezza pure nella scelta di più risultati utili possibili e non di vittoria ad ogni costo.

Il Napoli visto a Roma, e l’avesse fatto altre volte quest’anno, ha interpretato se stesso. Una decina di giocatori assenti, quasi tutti titolari, sono abbastanza per capire che in una trasferta così complicata, contro un avversario più in forma, evitare di subire una sconfitta vale un equilibrio su cui il Napoli deve costruire le sue possibilità, ancora poche, di raggiungere il quarto posto. Perdere avrebbe rappresentato una fuga della Lazio, e non solo, e un abbattimento psicologico quasi definitivo. Ora, ovviamente, la squadra deve anche ricominciare a trovare le soluzioni per andare in gol (dipenderà pure dal ritorno di molti calciatori).

Gli sprazzi di gara in cui il Napoli è tornato a muoversi in venti metri, in cui si è rivista una maggiore mobilità tattica e una migliore attenzione difensiva sono, attualmente, i soli punti concreti di una squadra che, per tante ragioni, fa bene ad accorgersi di poter puntare su quelle concretezze. Illudersi, come è avvenuto nei mesi precedenti, significherebbe cadere nel più pericoloso degli errori. Il Napoli, e questo forse è l’unico grande merito di Mazzarri, sta sconfiggendo un narcisismo di fondo da cui far nascere un nuovo riconoscimento. Tanto quanto in “dovere” al suo vertice societario.