Quando, l’8 agosto del 1991, la nave Vlora arrivò al porto di Bari con il suo carico di 20.000 anime in fuga, e in cerca di vita, erano tutti in vacanza. Era in vacanza il prefetto, in vacanza il comandante della polizia municipale, persino il vescovo, come racconta la moglie del sindaco del capoluogo pugliese di allora, Dalfino. Non andarono in vacanza i cittadini baresi, che si attivarono nei soccorsi, e per tutto il periodo nel quale i profughi albanesi furono stipati all’interno dello Stadio Della Vittoria, in condizioni igienico-sanitarie precarie, inaugurarono una catena di solidarietà in aiuto delle persone arrivate con quello che, ad oggi, resta il più grande sbarco di migranti mai arrivato nella penisola.

Fu quello di più di 25 anni fa il primo abbraccio tra la gente d’Italia e la gente d’Albania. Che, un quarto di secolo dopo, è talmente intrecciata nel tessuto sociale del Paese da far gridare al miracolo, e tirare sonore pernacchie a tutti quelli che, nel corso degli anni ’90, sventolavano lo spauracchio dell’albanese, prima di passare, per evidente insuccesso, a quello del rumeno, del migrante, o semplicemente del diverso. 

Oggi la comunità di cittadini albanesi è la seconda più presente nel nostro Paese, con quasi mezzo milione di persone, senza considerare i cittadini italiani per ius soli di origine albanese. Italia-Albania di domani sera, come tutti gli incroci che hanno preceduto la sfida, non può essere una partita qualsiasi. Non può esserlo per due popolazioni divise dall’Adriatico, ma unite dalla forza di volontà di convivere nella stessa terra. Non sempre in maniera indolore, non senza inciampi e traumatiche prove tecniche di trasmissione, non sempre senza la contaminazione dell’insopportabile pregiudizio, a cui è possibile rispondere solo con la più potente delle retoriche, la verità. E la verità è che un quarto di secolo dopo, due popolazioni che più qualcuno desiderava divise, più si sono naturalmente unite, compenetrate, arricchite, vedranno assieme una partita che non può essere come tutte le altre.

Non senza un pizzico di malizia, si giocherà a Palermo, e Gianni De Biasi, ct italiano in Albania senza che nessuno constatasse che “toglie il lavoro agli albanesi”, punge: una collocazione così periferica penalizza la sua Nazionale. Non entrando nel merito, l’immaginare un’ Italia-Albania giocata al San Nicola di Bari, una festa da pazzi, una celebrazione di ciò che è stata e di ciò che può essere l’immigrazione nel nostro Paese, è destinato per ora a rimanere un sogno erotico.

Resta l’emozione speciale, e un po' inspiegabile, che accompagnerà il fischio d’inizio di domani sera. Per le strade di uno dei tanti paesi di provincia della terra di Bari, la scorsa estate, un’auto con due ragazzine, a clacson spianato, e sparando dall’autoradio le note dell’Himni i flamurit , l’inno albanese, festeggiava solitaria per le strade deserte la prima vittoria agli Europei della Nazionale. Stupite, ma non troppo, le due ragazzine che fuori dai finestrini sventolavano una bandierina rossa con l’aquila nera, videro questo passante a piedi, a fine lavoro, urlare per un momento insieme a loro, prima di sfrecciare via. Durò qualche secondo. Eravamo in tre, nella città vuota, e non ci eravamo mai visti prima. Resta intimamente uno dei festeggiamenti calcistici più belli della mia vita.