Molti degli avversari incontrati fino a questo momento non sono abbastanza per capire quanto la nazionale italiana sia diventata competitiva per ambire ai vertici del calcio mondiale. Tuttavia, quando si gioca bene, si nota e basta. L’armonia non passa inosservata. Il merito dell’attuale guida tecnica è quello di aver restituito, o forse sarebbe più corretto dire istituito, un tipo di entusiasmo che alla selezione italiana mancava da molto tempo.

Dal mancato ingresso di Insigne nei minuti finali di un arrembaggio fallito per l’ingresso al campionato del mondo, con tanto di sfuriata di De Rossi, al gioco insolito, quasi controtendenza, impostato da Mancini su calciatori nuovi, provenienti da un arlecchino calcistico che non distingue maglie e blasoni, il percorso sembra essersi avviato su una rivoluzione reale, invece di quelle proclamate in passato, ma di fatto portatrici di un conservatorismo tipicamente all’italiana, appunto.

Calciatori nuovi, sì. Non tanto per la loro presenza – molti vestono la maglia azzurra da molto tempo – ma per la direzione che è stata fornita alla loro ispirazione. Certo, le chiavi del gioco a Jorginho andavano consegnate prima, chissà. Forse a questo calciatore serviva la consacrazione in un estero più accreditato per farsi più credibile agli occhi dei vecchi selezionatori. 

La sensazione, per adesso provvisoria (non si ecceda in facili trionfalismi), di una squadra briosa perché coraggiosa, perché libera di affidarsi a chi non deve aspettare di finire in un club importante per poter aspirare alla vittoria, ma sa che per le sue qualità potrà farlo in nazionale, è reale e possibile alla sua concretizzazione. 
Questa Italia pare dissimularsi sempre più, lontana da quei modelli di gioco rigidi e prudenti che, soprattutto negli ultimi anni, quasi mai hanno valorizzato le qualità di talenti, giovani o più esperti che fossero, in grado di adeguare il gioco della nazionale ai nuovi modelli tattici. Una squadra che non impone un calcio nepotista e attendista, dove la pretesa dell’esperienza debba coincidere col trascorrere del tempo e non con la bravura di chi sa giocare a calcio.

Un pallone deburocratizzato, che sembra muoversi tra calciatori liberi, ma al tempo stesso legati a un gioco più complesso ed efficace. Molto più bello anche da vedere. Questa impostazione non si ammirava dai tempi della nazionale di Italia ’90. Lì, però, più che i meriti di un Vicini comunque legato a certe mentalità da calcio di Stato, a fare la differenza era l’altissimo livello tecnico del calcio nazionale. E con davanti avversari di caratura impressionante. Le squadre europee (Germania, Olanda, URSS, Jugoslavia et cetera) di quegli anni erano grandi compagini, così come le grandi sudamericane erano organici affollati di grandi giocatori. Soprattutto il Brasile. Un po’ meno, forse molto meno, l’Argentina. Ma era l’Argentina di Maradona.

Questa Italia probabilmente non è di quel livello, ma il suo merito è quello di aver intrapreso una strada segnata da un intendimento del calcio che potrebbe, finalmente, trovare il coraggio di liberarsi di una parte di sé della quale avrebbe dovuto liberarsi già da tempo. Inutile ribadire che questa nazionale non può ancora sottrarsi alla necessità di certe verifiche. Quelle arriveranno, con avversari di gran lunga più impegnativi rispetto a quelli affrontati in questo periodo in cui, però, s’intravede un calcio che gioca a calcio.