Chi segue il calcio, tifa. A meno di eccezioni orientativamente corrispondenti alla percentuale di voti raccolti dal Partito dei Pensionati alle ultime politiche*, l'appassionato di pallone ha una squadra preferita. Magari la si segue con meno calore rispetto ai sostenitori sfegatati, magari di tanto in tanto si salta una partita, ma quando si vedono quella maglia e quei colori il cuore batte più forte. Quasi tutti, insomma, sono legati al calcio in maniera sentimentale, romantica – perché il tifo, nonostante certi soggetti vogliano fare il possibile per farci cambiare idea, è nient'altro che una categoria dell'amore.

Un amore che, però, non dovrebbe travalicare certi confini. Spesso, infatti, si commette l'errore di andare oltre i colori, di confondere la maglia-contenente con il giocatore-contenuto, di indirizzare male il proprio sentimento – di idealizzare i propri calciatori preferiti: si pensa che questo resterà per sempre, che quello diventerà una bandiera, che quell'altro rifiuterà proposte più ricche e blasonate. Bene, vi riporto sulla terra: non è così. Non sempre, almeno. Prendiamo il caso più recente. Sì, Gigio Donnarumma. Un caso che farà scuola, che diventerà presto un termine di paragone. Perché, se andasse via dal Milan, Gigio lascerebbe la squadra in cui è nato – a differenza di Higuain. Perché, se andasse via dal Milan, Gigio lascerebbe la squadra in cui è cresciuto – a differenza di Pogba. E perché, a differenza di Ciro Ferrara (e anche del primo Fabio Cannavaro) ai tempi del Napoli, Gigio andrebbe via da Milano non perché costretto da una società in crisi, ma per soldi. Perché è un mercenario, dicono i tifosi che si sentono traditi perché l'hanno visto baciare la maglia, perché l'hanno sentito pronunciare parole d'amore.

Ora, partiamo dal presupposto che, al posto di Donnarumma, tutti avremmo fatto la stessa scelta – o meglio: tutti, meno eccezioni orientativamente corrispondenti alla percentuale di voti raccolti dal Partito dei Pensionati alle ultime politiche*. Davanti a Gigio si prospetta una carriera da mille e una notte, le proposte – non solo economiche – sono molto più che allettanti. E poi, certo, si è affidato a Mino Raiola, un procuratore che difende gli interessi propri, oltre a quelli dell'assistito – che guadagnerebbe cifre considerevoli se riuscisse a piazzare Donnarumma in una grande e a fargli ottenere uno stipendio migliore. Comunque sia, e al di là dei soldi, biasimarlo senza riconoscere i limiti del Milan – di questo Milan – e del calcio italiano – di questo calcio italiano – sarebbe poco onesto. Ha scelto così, legittimamente. Da professionista.

D'altro canto, bisogna entrare nell'orizzonte di idee che le bandiere non sventolano in mezzo al campo, non si gonfiano con i baci alla maglia, non vengono issati con le promesse pubbliche di amore eterno. Le bandiere sventolano soprattutto lontano dal campo, si gonfiano quando impongono la propria volontà, vengono issate quando decidono, anche a scapito di una ricchezza maggiore, di unire il proprio destino con quello di una società. Come Paolo Maldini, che però giocava in un Milan stellare e non avrebbe avuto grandi motivi di cambiare casacca; come Javier Zanetti, nel bene e nel male con l'Inter; come Francesco Totti, per cui mezza Europa avrebbe fatto carte false, per anni. E come Marek Hamsik, uno dei pochi che ha costretto Raiola alla resa. Il superprocuratore aveva cominciato a gestirlo in collaborazione con Juraj Venglos (lo storico manager dello slovacco) poco dopo il suo arrivo a Napoli. Quando, cioè, Hamsik avrebbe potuto scegliere qualsiasi destinazione, dal Milan alla Premier. E invece scelse di restare a Napoli. Raiola ci provò per qualche sessione di mercato, salvo poi arrendersi e lasciare il giocatore non senza un accenno di polemica: "Marek ha una filosofia di vita che rispetto ma non condivido", disse, "Chi giura fedeltà è come se non volesse progredire". Questione di punti di vista. Da una parte c'è Gigio Donnarumma, che ha scelto di guardare oltre, di guadagnare di più, di rimettersi in gioco; dall'altra c'è Marek Hamsik, che ha scelto di restare, di dire no a un aumento di stipendio, di rimettersi in gioco - perché alla fine ci si rimette in gioco ogni volta che si entra in campo. Da una parte l'ambizioso, dall'altra il fedele. Due modi diversi di vivere la vita di calciatore - due modi diversi ma comunque (al di là dei sentimenti del tifoso tradito) corretti. E comprensibili.

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