E neanche le cime di rapa. Perché, va ammesso, al netto di qualche bella quanto sporadica soddisfazione (la vittoria all’esordio in Liguria, o quella roboante in casa con l’Avellino) e più di un passaggio a vuoto (dall’eliminazione dalla Coppa Italia senza colpo ferire, fino alle disarmanti  sconfitte degli ultimi giorni) quello tra l’ex commissario tecnico dell’Under 21 e l’ambiente barese è un amore mai sbocciato.

Colpa dell’intransigenza tattica di Mangia, certamente. Ma non soltanto. Certo, il naufragio del progetto è figlio della scarsa flessibilità del sistema di gioco, una volta che ci si è confrontati con l’inadeguatezza degli interpreti portati dal mercato con gli schemi che l’allenatore aveva (e ha) in mente. Senza compromessi. Ma c’è dell’altro.

Gli interpreti, appunto. Non solo quantitativamente. Un mercato che ha portato via, da quel Bari che sfiorò la promozione e si arenò sugli errori arbitrali nel doppio confronto playoff con il Latina, giocatori del calibro, tra gli altri, di Nadarevic, Ceppitelli, Cani, Joao Silva, decisamente mal rimpiazzati. E qui iniziano le colpe di una società nuova, entusiasta, forse troppo. Perché le stesse emorragie di giocatori, in altri tempi e con altri dirigenti, avrebbero portato a rivolte popolari, e quest’estate invece sono passate sotto silenzio. Ed è bene ammetterselo, tutti quanti, dal presidente al tifoso medio. Con troppa superficialità, e forse una punta di incoscienza, si è stati convinti, a Bari, che la promozione, a questo giro, dovesse toccare di diritto divino. E credere che il Bari potesse far a meno, dopo tre anni, di Diego Polenta al centro della difesa, può non esser colpa soltanto di Mangia.

Si riparte da una situazione non compromessa, tutt’altro che irreparabile, a patto di ricominciare in maniera più umile, più sommessa, più flessibile, adattando (a chiunque tocchi) il sistema di gioco agli interpreti che, giocoforza, ci sono oggi. E con una convinzione: il diritto divino, se esiste, va guadagnato.