Dopo il mondiale brasiliano ci apprestavamo a vivere l’ennesima, noiosa estate del pallone. Quella delle amichevoli, dei colpi a salve di mercato, del piangersi addosso guardando il nostro calcio ridimensionarsi, ancora e ancora. Poi, però, il pallone ha tirato fuori dal cilindro tale Carlo Tavecchio, fino a qualche mese fa sconosciuto ai più e oggi nientemeno che presidente della Federcalcio. Noi non possiamo che ringraziarti, presidente, perché grazie a te abbiamo potuto affiancare alla malinconia la rabbia e la vergogna, sentimenti di vita. Quella frase razzista pronunciata nel discorso d’investitura grida ancora vendetta: per i prossimi due anni ce la troveremo appiccicata addosso sempre e dovunque. La vergogna, poi, si fa ancora più grande alla lettura della sentenza dell’UEFA, visto che da noi la faccenda è finita con un’archiviazione più politica che giuridica, la classica soluzione volemose bene in pieno stile italiota.
Il bicchiere è comunque mezzo pieno: per i prossimi sei mesi Tavecchio non potrà partecipare a manifestazioni della Federazione Europea. Per un quarto del suo mandato, insomma, non potrà sedersi al tavolo con gli altri capi del calcio europeo, e quindi potrà evitare di combinare guai, almeno a livello internazionale. Dovrà, inoltre, organizzare una sorta di conferenza sul razzismo bis, una cosa in piccolo rispetto a quella tenuta proprio dall’UEFA, e proprio a Roma, nemmeno un mese fa, e a cui il presidente non ha nemmeno partecipato - ovviamente, non pareva il caso. Beati loro, quindi, che possono alzarsi e puntare il dito contro l’ometto razzista e decidere di non volerlo tra i piedi, ed escluderlo da tavole rotonde, sorteggi, premiazioni e serate di gala. Beati loro, e dannati noi, che come loro vorremmo essere, e costringere a ritirarsi l’inadeguato presidente, che in un paese normale il passo indietro l’avrebbe fatto da solo. Intanto lui sta lì, saldo al suo posto, incassa e non ricorre al TAS e continua a governare il nostro calcio con accanto Lotito, un altro che avrebbe dovuto fare tanti di quei passi indietro da camminare a gambero per una decina di giorni – quello che all’aeroporto di Oslo se la prende con chi non gli fa portare sull’aereo le bottiglie d’acqua, quello che Marotta con un occhio gioca e con l’altro segna i punti, quello che – non dimentichiamocelo mai – è di fatto il numero 1/bis del nostro pallone, che in politichese si dice “consigliere federale con delega alle riforme”.
Il calcio italiano aveva bisogno di un cambio di marcia, nel dopo Abete. Di una persona nuova, giovane, di rottura. Una persona che, intendiamoci, non sarebbe stata nemmeno Albertini, che dal 2007 bazzicava la federazione come vicepresidente e che ha la sua bella fetta di responsabilità. Ma l’ex Milan sarebbe stato, se non il bene maggiore, sicuramente il male minore. Avremmo conservato una po’ di credibilità, ci saremmo liberati da certi facilissimi cliché, e sicuramente non ci saremmo ritrovati, nostro malgrado, nella bufera scatenata dal giovane Opti Pobà – ce lo vedete Albertini a lasciarsi andare a razzismi vari in luogo pubblico?
A benedirsi la rottura e il cambio di marcia, continuiamo a viaggiare in seconda con alla guida Carlo Tavecchio; la credibilità se l’è rubata il buon Pobà, e i cliché si buttano via. Ma nonostante tutto, da buoni italiani, non disperiamo. Non si può. Il presidente s’è già giocato il jolly: alla prossima, vogliamo sperare che lo scenario sarà diverso, e che condanneremo invece di archiviare. Tanto una prossima ci sarà. Ci metto la mano sul pallone.
Antonio Cristiano
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