Nel 1989 esce Scugnizzi, film diretto da Nanni Loy. Tutta Napoli, mezza Italia, e non solo, esprimono la soddisfazione per un film capace di raccontare l’anima e i disagi di un gruppo di ragazzi del carcere minorile di Nisida, a Napoli. Il film di Loy, celebre anche per le canzoni scritte da Claudio Mattone, rappresenta le vite di giovanissimi coinvolti fin da piccoli nelle dinamiche degli ambienti criminali. Il film, coi suoi intermezzi da musical partenopeo, riscuote un grande successo e un notevole consenso, non senza qualche polemica (come è naturale consuetudine in certe occasioni), ma pienamente approvato dalla sensibilità popolare.
Ricordo che per anni il film, le canzoni, gli stessi attori, alcuni dei quali provenienti da esperienze vissute all’interno del riformatorio di Nisida, fanno il giro d’Italia, incontrando non soltanto il consenso della retorica collettiva, ma suscitando emulazioni artistiche, in certi casi addirittura esasperate imitazioni, nel segno di un messaggio civile diretto alla sensibilizzazione di un problema, quello della criminalità infantile, che non può essere risolto con la semplice condanna giudiziaria. Nanni Loy, giustamente, vuole stabilire, fin dal primo momento, il significato, la funzione di fondo di un racconto che dice al resto d’Italia che crescere e vivere in certe città e in certi quartieri non è poi così semplice come altrove.
Nello stesso anno esce Mery per sempre, diretto da Marco Risi, ispirato al romanzo di Aurelio Grimaldi. Mery per sempre, sia pur in maniera diversa, racconta le tragedie private di alcuni ragazzi rinchiusi in un carcere minorile di Palermo. Anche lì avviene la stessa operazione, con lo stesso intento, quello di sottolineare quanto margine di riserva ci si dovrebbe imporre prima di giudicare contesti così distanti da condizioni più privilegiate. Forse è un coro mediatico, forse è una voce artistica collettiva che vuole compiere un’operazione di formazione. Certo è che in quegli anni il cinema, i libri, i teatri e le televisioni contribuiscono al processo di “umanizzazione” della reputazione di certi luoghi, e, meglio ancora, di certi uomini. E nel tempo qualcosa è rimasto, nelle manifestazioni di contestazione e nella morale di costume.
Settembre 2014, a Napoli un inseguimento dei carabinieri finisce in tragedia. Un diciasettenne rimane ucciso da un accidentale colpo di pistola sparato da un agente. Le reazioni sono immediate, ma poco a poco convergono verso un livello di attenzione più anomalo, da parte dei media e dei social network (ormai rappresentanti diretti dell’opinione pubblica). Tutto si sposta sul fatto che Davide Bifolco, il ragazzo di rione Traiano vittima dell’accaduto, al momento dell’alt intimato dalle forze dell’ordine (non rispettato dai ragazzi) era su un motorino privo di assicurazione e senza patentino insieme ad altre due persone, una delle due inizialmente indicata come latitante.
Gli articoli di molti giornali, le discussioni sull’accaduto, si spostano sulle infrazioni commesse dai ragazzi sul motorino, sulla mancanza di educazione stradale, sul cosiddetto senso civico totalmente assente nella città di Napoli. Compaiono titoli nei quali qualcuno scrive che Napoli ha ucciso un suo cittadino, che la città è in guerra, che a Napoli tutto questo è normale, e che molte persone poco perbene non se ne fanno neanche un problema. Sulla rete si leggono commenti contrastanti, da parte di chi inveisce contro le forze dell’ordine e da parte di chi, invece, si scaglia contro il ragazzo, secondo molti reo di essersela cercata.
Non penso sia giusto mettersi a fare processi, magari prendendosela deliberatamente con chi ha sparato, senza conoscere con certezza i fatti. A quello, si spera, ci pensa chi ha i mezzi e il potere di appurare la verità. A chi non era là, invece, forse, spetterebbe il diritto al dispiacere, alla tristezza, davanti alla morte di un ragazzo, e, perché negarlo, anche davanti all’ipotetico, quanto attendibile, stato d’animo di una persona che potrebbe vivere il resto della propria vita col rimorso di essere responsabile della morte di un’altra persona. Il dovere dell’accortezza imporrebbe il fermo al giudizio avventato, al tono brusco, alla mania dell’inquirente privato che da anni ormai domina le pulsioni collettive. E tra i giudici e i censori ci sono gli stessi che hanno applaudito e applaudono Scugnizzi e Mery per sempre.
Forse, più che darsi alle retoriche sprovviste e sprovvedute, più che fare confusione tra una cosa e l’altra, mistificando l’eterna discussione sui mali di Napoli con un fatto di cronaca dove ci si dovrebbe chiedere soltanto se sia stato giusto che un ragazzo abbia pagato così a caro prezzo l’irresponsabilità di non essersi fermato a un posto di blocco, sarebbe più umano, persino più utile, riservarsi il silenzio del dispiacere, una cosa che vi assicuro può restituire molta più intelligenza e saggezza di tante chiacchiere maldestre.
A Napoli, che non scopriamo adesso quanto sia un luogo infestato da dolori e contraddizioni, non c’è la via Pal. La vita per certi ragazzi è davvero una cosa seria senza giochi di prova e senza possibilità di appello, come lo è per tanti giovani poliziotti, per tanti carabinieri “ragazzi”, naturalmente immaturi e inesperti, nel senso più umano del termine, per poter fronteggiare livelli di responsabilità così alti, talvolta soggiogati, perché questo nemmeno si dice, da sistemi educativi che in certe situazioni tendono a estremizzare la valutazione di alcuni frangenti. Fosse così facile distinguere il bene dal male. Qui non ci sono eroi e santi da canonizzare, né demoni da condannare. I fatti hanno già causato i danni peggiori.
A proposito della via Pal, mi viene in mente una frase del libro di Ferenc Molnar. “Ci sono ragazzi ai quali piace obbedire, anche se la maggior parte preferisce comandare. Gli uomini sono fatti così!”. Chissà, forse di Scugnizzi e di Mery per sempre non se ne vedono più.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka